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Michelangelo: Giudizio Universale (Cappella Sistina)
Federico Zeri commenta il restauro della Cappella Sistina
Il Giudizio universale (1535-1541) è un affresco[1]di Michelangelo Buonarroti, realizzato tra il 1535 e il 1541 per decorare la parete dietro l’altare della Cappella Sistina (Musei Vaticani, Roma). Si tratta di una delle più grandiose rappresentazioni della parusia, ovvero dell’evento dell’ultima venuta alla fine dei tempi del Cristo per inaugurare il Regno di Dio, nonché di un capolavoro dell’arte occidentale in generale.
Il Giudizio universale segnò la fine di un’epoca e costituì uno spartiacque della storia dell’arte e del pensiero umano: all’uomo forte e sicuro dell’Umanesimo e del primo Rinascimento, che Michelangelo stesso aveva esaltato negli Ignudi della volta, subentra una visione caotica e angosciata che investe tanto i dannati quanto i beati, nella totale mancanza di certezze che rispecchia la deriva e le insicurezze della nuova epoca[2].. Fu commissionato da papa Paolo III Farnese
Il Giudizio universale (o Giudizio finale), secondo l’escatologia cristiana, è un avvenimento che si verificherà alla fine dei tempi, subito dopo la Seconda venuta di Cristo.
Secondo la teologia, infatti, il compimento delle storie di libertà vissute da ogni uomo comporta “il rendersi consapevoli della qualità etica di queste storie di fronte a Dio“. Inoltre “nella testimonianza biblica che Gesù sarà il giudice è contenuta la promessa che il giudizio di Dio sul male e su ogni colpa sarà un giudizio di grazia”
La concezione che al termine della loro vita Dio giudicherà tutti gli uomini in base alle azioni da loro compiute e destinerà ciascuno al Paradiso oppure all’Inferno è comune a molte religioni e filosofie e in particolare a quelle presenti nel contesto culturale in cui è nato il cristianesimo: l’ebraismo, lo zoroastrismo, la religione egizia (cfr. psicostasia) e fra le filosofie il platonismo.[2] Nel cristianesimo questa dottrina fa riferimento ad una celebre parabola di Gesù (Matteo 25,31-46). In essa Gesù si identifica con il sofferente e il giudizio verte di volta in volta sulla compassione concretamente dimostrata e non sulla fede professata.
La chiesa latina (seguendo Cipriano e soprattutto Agostino d’Ippona) ha sottolineato la necessità di una giustizia equilibratrice. La giustizia di Dio, fu quindi contrapposta alla sua misericordia, in quanto essa obbligherebbe Dio a un certo comportamento (Anselmo d’Aosta). Perlomeno Dio “non può dimostrare grazia nello stesso modo ai malfattori e alle vittime” ed “è sperabile che rispetterà e ristabilirà la dignità di queste ultime”.[3]
Secondo i teologi alessandrini del III secolo Clemente e Origene e i loro numerosi sostenitori la misericordia di Dio deve prevalere e condurre a una riconciliazione universale (apocatastasi. Apocatastasi (greco: αποκατάστασις, apokatástasis) è un termine dai molteplici significati a seconda degli ambiti (principalmente religiosi e filosofici) in cui è usato. Letteralmente significa “ritorno allo stato originario”, “reintegrazione”). Questa dottrina fu sempre sperata nella storia della Chiesa e della teologia, in quanto “la teologia non possiede alcuna conoscenza, né alcuna competenza per decidere sulle possibilità che Dio ha di mutare positivamente le libere decisioni delle sue creature senza distruggerne la libertà”.[4] La riprende anche il teologo cattolico Hans Urs von Balthasar, che sottolinea come ad essa sembrano aderire alcuni fra i più famosi teologi cattolici, fra cui anche lo stesso Papa Benedetto XVI.