La basilica di Santa Maria del Popolo è un luogo di culto cattolico del centro storico di Roma, situato in piazza del Popolo, dalla quale prende il nome, a lato della porta del Popolo. La chiesa ospita numerose opere d’arte e monumenti funebri, risalenti soprattutto al periodo tra il XV e il XIX secolo.
Nel 1099 in seguito alla conquista del Santo Sepolcro a Gerusalemme, Pasquale II° ordinò la costruzione, a spese del popolo romano, di una cappella sulla tomba dei Domizi da dedicare a Maria, che negli anni 1213-27 Gregorio IX° trasformò in chiesa. Il complesso religioso nel 1250 passò all’Ordine degli Agostiniani della Tuscia e nel 1472 a quello della Congregazione Lombarda, che farà rielaborare la chiesa nel 1472 in stile lombardo.
Cappella Cerasi (o dell’Assunta), una delle più importanti della basilica; in essa si trovano due delle principali opere del Caravaggio, la Conversione di San Paolo e la Crocifissione di san Pietro; la pala d’altare, raffigurante l’Assunzione della Vergine, è di Annibale Carracci
Natività di Maria Olio su lavagna di Sebastiano del Piombo
Assunzione della Vergine di Annibale Carracci
La cappella del Presepio, o Della Rovere, si trova nella navata destra della basilica di Santa Maria del Popolo a Roma. Si tratta della prima partendo dalla controfacciata ed è dedicata alla beata Vergine e a san Girolamo. Vi si trova un ciclo di affreschi di Pinturicchio e bottega
Cappella Cybo: cappella monumentale a croce greca, costruita nel XV secolo, decorata inizialmente dal Pinturicchio, e completamente trasformata da Carlo Fontana alla fine del XVII secolo per il cardinale Alderano Cybo; in essa si trovano le tombe dei cardinali Lorenzo e Alderano Cybo; la pala d’altare, raffigurante una Immacolata concezione con santi, è di Carlo Maratta.
Cappella Basso Della Rovere, edificata intorno al 1484 dal cardinale Girolamo Basso della Rovere, e decorata da allievi della scuola del Pinturicchio; il pavimento è quello originale del XV secolo, in ceramica di Deruta.
L’Arcibasilica Laterana o Lateranense, meglio nota come San Giovanni in Laterano, è la Cattedrale della diocesi di Roma, sita sul colle del Celio, e la sede ecclesiastica ufficiale del Papa, contenendovi la Cattedra papale o Santa Sede. È inoltre la prima delle quattro basiliche papali e la più antica ed importante basilica d’Occidente
La più celebre e visitata scala santa, meta di pellegrinaggio da parte dei cattolici, è quella che si trova a Roma, facente parte di un complesso denominato Santuario della Scala Santa nelle immediate adiacenze della basilica di San Giovanni in Laterano.
Si tratterebbe della scala stessa salita da Gesù, che sarebbe stata trasportata a Roma da Sant’Elena Imperatrice, madre di Costantino I, nel 326.
la cappella di San Lorenzo in Palatio, detta Sancta Sanctorum, cioè la cappella privata del papa, vescovo di Roma, fino agli inizi del XIV secolo; è in questa cappella che è custodita l'”Acheropita lateranense”, ossia la pala d’altare della cappella papale
Il Triclinium Leoninum (detto anche Nicchione del Laterano) è un singolare resto di un antico triclinio fatto costruire da papa Leone III, prendendo a modello una sala del palazzo imperiale di Costantinopoli.
Il Battistero lateranense, il cui titolo è San Giovanni in Fonte al Laterano, è un luogo di culto cattolico di Roma, a pianta centrale, opera di architettura paleocristiana, modello e archetipo dei battisteri edificati nella cristianità per tutto il medioevo.
L’Obelisco Lateranense è uno dei tredici obelischi antichi di Roma ed è situato in piazza San Giovanni in Laterano. Con la sua altezza di 32,18 m (con il basamento e la croce raggiunge i 45,70 m) è l’obelisco monolitico più alto del mondo[1].
Fu realizzato all’epoca dei faraoni Tutmosis III e Tutmosis IV (XV secolo a.C.) e questo lo rende l’obelisco più antico di Roma. Proviene dal tempio di Ammone a Tebe (Karnak) in Egitto. Fu portato a Roma per volere dell’imperatore Costanzo II nel 357 ed eretto dal praefectus urbi Memmio Vitrasio Orfito sulla spina del Circo Massimo, dove già si trovava l’obelisco Flaminio.
Venne ritrovato in tre pezzi nel 1587, insieme all’obelisco Flaminio, e fu eretto nella sua attuale collocazione nel 1588 dall’architetto Domenico Fontana per volontà di papa Sisto V.
La chiesa si erge sulla sommità settentrionale del colle capitolino (“Arx“), dove sorgeva l’antico tempio di Giunone Moneta (cioè “ammonitrice”). Il tempio risalirebbe al 343 a.C. e fu fondato da Camillo dopo una vittoria sugli Aurunci. Qui vicino sorse, in seguito, la zecca di Roma denominata proprio “Moneta” per il fatto di essere stata costruita accanto al tempio: da qui il nome “moneta” che tuttora diamo al denaro. La Zecca, forse in seguito all’incendio dell’80 d.C., fu ricostruita alle pendici del Celio: i suoi resti sono stati riconosciuti sotto l’odierna basilica di S.Clemente. Dalla piazza del Campidoglio due scalinate costruite su progetto del Vignola tra il 1547 ed il 1552 portano, rispettivamente, al “Capitolium” ed alla chiesa di S.Maria in Aracoeli: nella foto 1 possiamo ammirare quella che conduce al Convento di S.Maria in Aracoeli dei Frati Minori Francescani ed all’ingresso laterale della chiesa, anche se un tempo accesso principale.
In cima alla scalinata fu posta nel 1703 una colonna con capitello corinzio e croce (nella foto 1 e 2) per ringraziare la Vergine Maria per i danni limitati causati dal terremoto agli edifici circostanti. Sull’origine di S.Maria in Aracoeli si sa poco ma già nell’880 si rammenta “S.Maria in Capitolio” ma addirittura la si dice fondata da Gregorio Magno nel 590. L’origine del toponimo “Aracoeli” (che significa “ara, o altare, del cielo”) è tutta nel termine latino “arx“, prima volgarizzato in “arce” e poi divenuto, per corruzione romanesca intorno al XIV secolo, “arceli”: la grafia alla latina “aracoeli” venne più tardi, probabilmente da parte di illustri letterati che ritennero che l’origine del toponimo stesse in quella leggenda che narrava come l’imperatore Augusto avesse costruito un’ara del cielo dopo avere avuto l’apparizione della Vergine con il Bambino tra le braccia ed avere udito una voce dire “Ecce ara primogeniti Dei“.
La chiesa fu costruita, in stile romanico, nella metà del XII secolo con l’ingresso rivolto verso l’Asylum, come testimonia il portale nella foto 3, con il bellissimo affresco della “Madonna ed il Bambino fra due Angeli”, accesso oggi ritenuto laterale e raggiungibile dalla scalinata sopra menzionata. Il nuovo orientamento fu opera dei Francescani e la nuova chiesa, in stile gotico, fu inaugurata nel 1348 insieme alla scalinata. Nel Medioevo la Chiesa divenne quasi il nuovo foro di Roma: Cola di Rienzo vi parlò al popolo; Carlo d’Angiò vi tenne parlamento con i Romani; i guelfi di Roma vi si difesero contro l’imperatore Arrigo VII; vi si tenevano anche le elezioni dei Caporioni della città. Il carattere civile e religioso finì per essere profanato durante l’occupazione francese e la Repubblica del 1797, quando la chiesa venne sconsacrata ed adibita a stalla.
Si riabilitò con la fine della Roma napoleonica, ma dopo il 1870 si trovò al centro dei lavori di demolizione per la costruzione del Vittoriano e riuscì a salvarsi a stento, mentre venivano abbattuti l’antica sagrestia, il convento e la Torre di Paolo III che sorgevano alle sue spalle. La facciata, con l’ampia superficie di nudo laterizio, era ricoperta di mosaici e di affreschi, purtroppo spariti; vi erano anche tre rosoni sopra i portali, ma quello centrale, a croce gerosolimitana, fu tolto durante il pontificato di Urbano VIII (1623-44) per l’inserimento di una finestra con vetrata a colori, con tanto di api dei Barberini, come possiamo ammirare ancora oggi. Non vi è neppure l’orologio, il primo installato a Roma nel dicembre del 1412, ad opera del maestro Ludovico da Firenze, che ne costruì il meccanismo, e del maestro Pietro da Milano, che vi collocò la campana. La cosa era talmente importante che fu istituito uno speciale ufficio, i “moderatores horologii“, affidato ai fratelli Domenico e Fabio della Pedacchia. Originariamente era posto sulla sinistra della facciata, poi al centro ed infine fu spostato sulla facciata del Palazzo Senatorio nel 1806: fino al 1886 ne restò la mostra ma oggi c’è soltanto il buco. Le 122 colonne che dividono l’interno della chiesa in tre navate furono recuperate da vari edifici antichi: l’iscrizione, sulla terza colonna da sinistra, “a cubicolo Augustorum“, farebbe pensare che essa provenga dalla stanza da letto dell’imperatore sul Palatino, dove era la casa imperiale. Il soffitto, decorato con motivi navali, commemora la vittoria di Marcantonio Colonna nella battaglia di Lepanto del 1571 e fu realizzato sotto il papato di Gregorio XIII Boncompagni, il cui stemma di famiglia, il dragone, è visibile all’estremità dell’altare. Alla chiesa si arriva tramite una scalinata di 124 gradini (122 se si sale dal lato destro), inaugurata, secondo la leggenda, dal tribuno Cola di Rienzo nel 1348 e realizzata da Lorenzo di Simone Andreozzi a spese del popolo romano, come ringraziamento alla Vergine per aver salvato la città dalla peste: sarebbe costata 5000 fiorini.
Nel Seicento, sui gradini della scalinata, avevano preso l’abitudine di accamparsi di notte i contadini che venivano in città a vendere i loro prodotti, finchè, una notte, vennero fatte rotolare dall’alto alcune botti piene di pietre che travolsero i dormienti: per evitare altri incidenti, la scalinata fu chiusa con grandi cancelli, rimasti in loco fino alla fine dell’Ottocento. La scalinata è stata considerata anche una vera e propria “scala santa”: veniva considerato miracoloso salirla in ginocchio da zitelle in cerca di marito, da donne desiderose di avere figli, da mamme che chiedevano latte per nutrire i propri figli ed anche da chi chiedeva vincite al Lotto. La chiesa, però, è famosa soprattutto per il “Santo Bambino” (nella foto 4), che la tradizione vuole sia stato intagliato da un frate francescano nel legno di ulivo del Getsemani (più conosciuto come Orto degli Ulivi) e battezzato nel fiume Giordano. È dal 1591 che la pia leggenda accende gli entusiasmi del popolo, perché il Bambino sarebbe dotato di poteri miracolosi, fra cui quello di resuscitare i morti e guarire i malati gravi: se può fare la grazia le sue labbra diventano rosse, altrimenti restano pallide. Purtroppo, la statua originale fu rubata nel 1994 e quella che oggi possiamo ammirare è una copia, anche se, considerati i numerosi ex voto che la circondano, per i fedeli nulla è mutato. A Natale il Santo Bambino viene messo al centro di un pittoresco presepe, ma di solito è nella Sacrestia, insieme al pannello della “Sacra Famiglia”, proveniente dalla bottega di Giulio Romano. Sull’altare vi sono un fascio di lettere che gli vengono spedite da ogni parte del mondo.
S.Croce in Gerusalemme (nella foto sopra), situata nella piazza omonima, fu edificata sui resti di una villa imperiale denominata “Horti Variani ad Spem Veterem” e la cui costruzione fu avviata da Settimio Severo e terminata da Eliogabalo nei primi due decenni del III secolo d.C. Della villa facevano parte l’Anfiteatro Castrense, il Circo Variano, dal nome della famiglia di Eliogabalo, il quale vi innalzò l’obelisco di Antinoo, le Terme Eleniane (così denominate dopo il restauro dell’imperatrice Elena), un nucleo abitativo, nel quale si identificarono una vasta sala (poi utilizzata per la costruzione di S.Croce in Gerusalemme) ed una grande sala absidata. La villa fu certamente decurtata di alcune sue parti dalla costruzione delle Mura Aureliane; all’inizio del IV secolo d.C. il complesso fu scelto come abitazione da Elena, madre di Costantino, con il nome di “Palazzo Sessoriano”: fu proprio grazie a lei che fu trasformato in basilica cristiana il grande atrio a pianta rettangolare, originariamente coperto da un soffitto piano, aperto con una serie di archi su pilastri, illuminato da venti finestre disposte cinque per lato e con decorazione marmorea nella zona inferiore.
Il termine “Sessoriano” deriva da “sedeo“, ossia “siedo”, giacché, nel tardo impero, il Consiglio imperiale si riuniva in una sala del palazzo: ancora oggi, infatti, usiamo il termine “sessione”, che ha la stessa radice linguistica, per indicare riunioni periodiche ufficiali. La basilica, detta inizialmente “Sancta Hierusalem“, assunse il nome di “Basilica Heleniana” nel 433, dopo che S.Elena vi fece edificare una cappella, isolata rispetto al complesso centrale, dove ripose i resti della S.Croce da lei rinvenuti e qui riportati da Gerusalemme. Anche se la chiesa era situata ai margini della città, divenne meta di pellegrinaggi in virtù dell’immensa importanza storica e religiosa delle reliquie: frammenti della Croce stessa, cioè tre pezzi del legno ed un chiodo, due spine della corona, parte dell’iscrizione di Ponzio Pilato in latino, ebraico e greco, “Gesù di Nazareth re dei giudei”, frammenti della colonna della flagellazione, la spugna imbevuta d’aceto usata per dissetare Gesù ed uno dei 30 denari di Giuda. Qualche modifica la chiesa la subì nel secolo VIII ma fu sotto il pontificato di Lucio II nel secolo XII che si ebbe la netta trasformazione: vennero creati dei settori longitudinali che la divisero in tre navate, venne creato il transetto, il chiostro (poi demolito) ed il bel campanile in laterizio (nella foto 1), di forma quadrata ed alto ben 8 piani.
Di essi si vedono solo gli ultimi quattro, con finestre monofore e bifore su colonne, alcune delle quali murate nel XIV secolo; i primi quattro piani invece sono inglobati nel monastero. La decorazione è completata da dischi di smalto monocromi, da due piccole edicole, del XII secolo quella al primo piano e del XIV secolo quella all’ultimo, e da un grande orologio posto al penultimo piano. Il campanile ospita tre campane, due sono opera di Simone e Prospero De Prosperis e risalgono al 1631, mentre la terza è più recente e risale al 1957. Nei secoli seguenti la basilica ebbe altri restauri sebbene nel periodo avignonese fu del tutto abbandonata, uno stato che, nonostante gli interventi di Urbano V nel XIV secolo e la consegna del monastero ai Certosini prima e ai Cistercensi poi, terminò soltanto nel XVIII secolo. Nel 1743, infatti, la basilica fu interamente rifatta per volontà di Benedetto XIV e per merito degli architetti Gregorini e Passalacqua, ai quali si deve l’attuale facciata in travertino, concava, scandita da fasci di lesene con ampie finestre poste al di sopra degli accessi minori ed il grande ovale al di sopra del passaggio centrale, sormontato da un arco a tutto sesto su colonne. Nel fregio si legge la dedica fatta apporre da papa Benedetto XIV, mentre sopra la balaustra di coronamento, che si interrompe in corrispondenza del timpano curvilineo, sono poste le statue dei Quattro Evangelisti, di “S.Elena con la Croce” (nella foto 2) a sinistra e di “Costantino” (nella foto 3) a destra: al centro, sopraelevata, è la Croce in ferro, con angeli in adorazione.
L’ingresso alla basilica avviene attraverso tre ampie arcate che immettono in un atrio a pianta ellittica, con piccola cupola sorretta da pilastri affiancati da colonne in granito che, nella basilica paleocristiana, erano situate all’interno. Attraverso le porte quattrocentesche, in parte danneggiate nel Settecento, si accede all’interno, diviso in tre navate da otto colonne originarie di granito e da sei pilastri, quattro dei quali racchiudono altrettante colonne antiche; nel soffitto ligneo voltato a botte si aprono sei lunettoni. Nel presbiterio si trovano un ciborio settecentesco e l’urna in basalto che custodisce i corpi dei santi Cesareo e Anastasio, mentre al centro dell’abside vi è un tabernacolo in marmo e bronzo dorato di Carlo Maderno e la magnifica tomba del cardinale Quiñones, confessore dell’imperatore Carlo V, opera di Jacopo Sansovino. Nei sotterranei si trova la ricca Cappella di S.Elena, ornata, nella volta, da una decorazione a mosaico voluta da Valentiniano III, poi restaurata agli inizi del Cinquecento da Melozzo da Forlì ed alla fine del Cinquecento dal Peruzzi. A questa cappella le donne possono accedere soltanto il 20 marzo, pena la scomunica, com’è scolpito in una lapide all’ingresso. Sotto il pavimento della cappella è sparsa la terra del Calvario, riportata anche questa da S.Elena, mentre nella cripta vi è la statua romana di Giunone, ritrovata ad Ostia Antica e trasformata nella statua di S.Elena con la sostituzione di testa e braccia e l’aggiunta di una croce.
Dopo aver custodito le Sacre Reliquie della Crocifissione per più di 16 secoli, la Cappella dovette cederle nel 1930 alla nuova Cappella delle Reliquie, costruita dall’architetto Florestano di Fausto per volontà del cardinale Pacheo, titolare della chiesa, su autorizzazione di Pio V, affinché le Reliquie fossero esposte alla venerazione dei fedeli. Nel piccolo giardino della piazza è situata una semplice ma elegante fontanella (nella foto 4) eretta nel 1928 dall’architetto Vittorio Cafiero. Rialzata su un piccolo gradino, al centro di un catino tripartito si eleva un fusto articolato in tre vaschette poste in altrettante nicchie, dalle quali tre teste di putti alati versano acqua nelle vaschette, dalle quali ricade poi nel sottostante catino. A lato della chiesa di S.Croce in Gerusalemme vi era un’edicola sacra con tettoia dedicata alla “Vergine con Bambino” di Antoniazzo Romano, sotto la quale vi si rifugiò Sisto IV durante un furioso temporale, implorando l’aiuto della Madonna.
Come segno di riconoscenza, il papa fece quindi costruire, per meglio conservare l’effige della Madonna, questo piccolo oratorio denominato S.Maria del Buon Aiuto (nella foto 5) o “del Soccorso”, anche se in passato ne ebbe un altro più curioso, “S.Maria de Spazzolari” o “Spazzolarla”, forse in attinenza con l’Università dei Cappellari che per qualche tempo la ebbe in cura. La chiesa presenta una facciata semplice, coperta da un tetto a capanna sul quale è situato un piccolo campanile; una breve scala con balaustra permette di accedere al bel portale con architrave, sul quale si trova la seguente iscrizione: “SIXTUS IIII FONDAVIT MCCCCLXXVI” (“Sisto IV fondò 1476”). Sulla parte alta della facciata è situato anche lo stemma papale di papa Sisto IV della Rovere, mentre una seconda iscrizione, su lastra marmorea, è posta sopra il portale e così recita: “IN QUESTO SANTO LOCO SI PREGA DIO PER L’ANIME DEL SANTO PURGATORIO LA SANTA MEMORIA DI SISTO QUARTO FECE INGRANDIRE QUESTO SANTO LOCO”.
testimonianza stupenda di Gianna Jessen, tenuta a Queen’s Hall – Melbourne 2008
La chiesa fu costruita nel IX secolo per volontà di papa Pasquale I su un’antica diaconia romana, eretta, quest’ultima, secondo un’antica tradizione, sulla casa di Santa Ciriaca, ma più verosimilmente sui resti di un antico edificio pubblico del VII secolo, i “praedia dominica“, aree di pertinenza imperiale: ciò spiegherebbe anche l’appellativo “in domnica” arrivato fino a noi. L’elegante facciata rinascimentale, preceduta da un ampio portico a cinque arcate, fu fatta costruire da papa Leone X nel XVI secolo.
L’interno (nella foto 1) è a tre navate scandite da 18 colonne ornate da capitelli corinzi di forma diversa l’uno dall’altro. Gli splendidi mosaici dell’arco trionfale e dell’abside rappresentano l’esempio meglio conservato della cosiddetta “rinascenza carolingia” a Roma. La fascia superiore del mosaico presenta il Cristo dentro la “vesica piscis” (ovvero la vescica del pesce) o mandorla, diffuso simbolo della vita, affiancato da due angeli che introducono gli Apostoli. Nel catino absidale è situata la Vergine in trono con il Bambino in braccio che indica Pasquale I, inginocchiato ai loro piedi e con l’aureola quadrata dei vivi. Ai lati della Vergine, schiere di angeli. Identità incerta per le due figure maggiori poste sull’arco trionfale: o santi legati alla storia di questa chiesa, come S.Lorenzo che qui aveva servito da diacono, oppure i due profeti Mosè ed Elia perché stringono tra le mani un rotolo. Nel registro inferiore si trova la seguente iscrizione dedicatoria: “ISTA DOMUS PRIDEM FUERAT CONFRACTA RUINIS NUNC RUTILAT IUGITER VARIIS DECORATA METALLIS ET DEUS ECCE SUUS SPLENDET CEU PHOEBUS IN ORBE QUI POST FURVA FUGANS TETRAE VELAMINA NOCTIS. VIRGO MARIA TIBI PASCHALIS PRAESUL HONESTUS CONDIDIT HANC AULAM LAETUS PER SAECLA MANENDAM”, ovvero “Questa casa prima era stata ridotta in rovine, ora scintilla perennemente decorata con vari metalli e la sua magnificenza splende come Febo nell’universo che mette in fuga le tenebre della tetra notte. O Vergine Maria, l’onesto vescovo Pasquale ha fondato per te quest’aula che deve rimanere gradevole nei secoli”.
La chiesa si affaccia su Piazza della Navicella (a Roma, anche la chiesa è chiamata S.Maria alla Navicella), così chiamata per la fontana a forma di nave romana (nella foto 2) antistante la chiesa. Secondo un’antica leggenda la navicella fu rinvenuta nei pressi del Colosseo e si tratterebbe di un ex-voto dedicato a Iside, la protettrice dei naviganti: fu dedicata o da marinai egizi di passaggio a Roma (qui vicino sorgevano i “Castra Peregrinorum“, cioè le caserme dei militari non di stanza nell’urbe ma solo di transito) o dai marinai della flotta di Capo Miseno che qui risiedevano, essendo adibiti alla manovra del “velarium“, la grandiosa tenda che serviva a riparare i romani che assistevano agli spettacoli nel Colosseo. Appare assai incerto se la navicella fu soltanto restaurata o interamente realizzata ex novo da Andrea Sansovino nel 1519 a causa dei gravi danni dell’originale, ritenuti irreparabili dall’artista: la realizzazione fu voluta da papa Leone X Medici, del quale il piccolo monumento reca ancora gli stemmi sulle facciate del basamento. La sistemazione attuale risale al 1931, quando la navicella, collocata originariamente in una diversa posizione, fu trasformata in fontana alimentata dall’Acqua Felice. La navicella, sollevata su un cippo marmoreo ed inserita in un’aiuola quadrangolare, è protetta da colonnine raccordate da catene in ferro battuto.
Oggi andremo alla scoperta della Basilica Papale di S. Maria Maggiore ,il cuore mariano della Città Eterna, consacrata alla Madre di Dio e considerata da sempre la Betlemme di Roma per le memorie e reliquie collegate alla vita della Vergine ed alla nascita di Gesù che essa racchiude. A questa Basilica dedicheremo più puntate tenuto conto delle meraviglie spirituali artistiche e storiche che essa contiene.
La Basilica di S.Maria Maggiore, situata nella piazza omonima sulla sommità del Cispio, una delle tre cime del colle Esquilino, è detta anche “Liberiana” dalla leggenda che tradizionalmente la collega a papa Liberio e secondo la quale, nel 352, il pontefice sognò la Madonna che gli indicava di costruire una chiesa là dove avesse trovato la neve. Quando il mattino del 5 agosto, nel mezzo di una torrida estate romana, nevicò sull’ Esquilino, il papa ubbidì e fece costruire la chiesa appunto detta “S.Maria della Neve”. Il miracolo della neve viene ricordato ogni anno, il 5 agosto, in una funzione durante la quale petali bianchi vengono fatti cadere dal soffitto della Cappella Paolina.
In realtà, di questa chiesa, non vi è nessun resto materiale, tanto che la si crede mai esistita o forse molto piccola, situata nei pressi della basilica attuale. Scavi archeologici effettuati sotto il pavimento della basilica hanno restituito invece un edificio composto da vari ambienti intorno ad un grande cortile porticato lungo 37 metri e largo 30, molto probabilmente una costruzione romana la cui struttura muraria, i pavimenti e le basi delle colonne ritrovate permettono di attribuire all’età tardoimperiale. S.Maria Maggiore fu costruita da Sisto III (432-440) per celebrare Maria “madre di Dio”, secondo quanto proclamato dal concilio di Efeso nel 431: lo stesso pontefice commissionò i 42 pannelli raffiguranti “Scene Bibliche” che ancora ornano la navata centrale e l’arco trionfale e che rappresentano la più importante documentazione di arte musiva del Basso Impero. La basilica assunse anche il nome di “Sancta Maria ad praesepe” perchè per onorare e celebrare meglio la Vergine Maria si trasferirono qui alcune reliquie della grotta di Betlemme, come alcuni pezzi della mangiatoia dove fu deposto il Bambino Gesù, oggi conservate in un’urna di argento e cristallo (nella foto 1), opera di Luigi Valadier, presso l’Altare della Confessione: dinanzi vi è la statua di Pio IX raccolto in preghiera, scolpita nel 1883 da Ignazio Iacometti. La basilica si ingrandì nel XIII secolo con Niccolò IV che fece ricostruire più arretrata l’abside, arricchita di mosaici, e creare una nuova facciata con i mosaici di Filippo Risuti.
I successivi cambiamenti avvennero nel XV secolo, quando il cardinale d’Estouteville fece coprire con volte le navate laterali, aprire le due porte laterali e commissionò a Mino del Reame un lussuoso ciborio, poi smantellato dal Fuga; nel 1500 Alessandro VI, ancora cardinale, fece completare il meraviglioso soffitto a cassettoni, opera di Giuliano da Sangallo, con il primo oro arrivato dall’America appena scoperta, dono dei re cattolici Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia; inoltre, nel XVII secolo, Clemente X incaricò Carlo Rainaldi di curare la parte absidale, anche se in questa occasione furono distrutti i mosaici che ornavano la calotta esterna dell’abside duecentesca. Benedetto XIV, nel 1743, commissionò a Ferdinando Fuga la facciata attuale con la “Loggia delle Benedizioni” (nella foto sotto il titolo), che, purtroppo, copre alla vista i bellissimi mosaici del Risuti, anche se ciò ha contribuito a preservarli. La facciata odierna, preceduta da un’ampia scalinata e racchiusa tra due palazzi gemelli scanditi da piatte lesene, stemmi e balaustre finali, è costituita da un portico a cinque ingressi con 8 colonne antiche sostenenti una trabeazione sulla quale vi sono due timpani triangolari ed uno centrale curvilineo, ornati da angioletti con al centro le statue della Verginità e dell’Umiltà. Sopra il portico è situata una grande loggia a tre arcate scandite da 6 colonne e conclusa da una balaustra con statue di Santi, pontefici e la statua centrale della “Madonna con il piccolo Gesù”. Sotto il portico, al centro, vi è una porta del 1937 con rilievi bronzei raffiguranti l’Incarnazione, mentre a sinistra è situata la Porta Santa (nella foto 2).
L’interno della chiesa, lungo 85 metri, è a tre navate scandite da 42 colonne con capitelli ionici e moderni. Numerose le sepolture importanti qui conservate: nella navata destra vi è la Cappella Sistina (nella foto 3), costruita nel 1587 da Domenico Fontana e Carlo Maderno per Sisto V. I marmi policromi e le colonne furono ricavati dal “Septizodium“; al centro è situato un altare in marmi e pietre dure con quattro angeli dorati sostenenti il ciborio in bronzo dorato, mentre alle pareti vi sono il monumento funebre di Sisto V (nella foto 4) e quello di Pio V.
Nel battistero possiamo ammirare la tazza di porfido rosso ed il rilievo dell’Assunta, opera di Pietro Bernini del 1610. In questa cappella si trova la singolare tomba di Antonio Emanuele Funta, soprannominato “Nigrita”, ambasciatore di Alvarez II, re del Congo, che nel 1604 lo inviò a Roma per ottenere l’invio di missionari nelle sue terre. Paolo V lo accolse con grandi festeggiamenti, ma il povero Nigrita morì prima di essere ricevuto dal papa; il monumento reca la testa del Nigrita in pietra nera sulla quale spiccano due bianchissimi occhi ed una falsa epigrafe: il monumento fu fatto per ordine di Paolo V, ma l’epigrafe fu fatta cambiare, più tardi, da Urbano VIII, per arrogarsi il merito di aver onorato il congolese.
5 Lastra tombale dei Bernini
Poco distante dalla Cappella ed accanto all’altare maggiore è situata, sul pavimento, la lastra tombale della famiglia Bernini (nella foto 5), dove vi sono sepolti sia Gianlorenzo che suo padre Pietro. Da questo punto si può ammirare anche uno dei più bei mosaici absidali, eseguito da Jacopo Torriti nel 1295 su commissione di Niccolò IV e Giacomo Colonna. Sullo sfondo del firmamento, entro un’aureola stellata, siedono Cristo e la Vergine; il Figlio con una mano incorona la Madre e nell’altra regge un libro sul quale si legge “Veni Electa Mea Et Ponam In Te Thronum Meum“. Al di sotto del nimbo convergono, da entrambi i lati, due schiere angeliche; sullo stesso piano trovano spazio a sinistra S.Francesco, S.Paolo e S.Pietro, davanti ai quali vi è la figura molto più piccola di Niccolò IV, a destra invece S.Giovanni Battista, S.Giovanni Evangelista e S.Antonio da Padova, con la piccola figura del cardinale Colonna. Bellissima è anche la Cappella del Crocefisso, ornata da 10 colonne di rosso porfido, dove, oltre al pregevole Crocefisso del Quattrocento, vi sono conservate molte reliquie. Nella navata sinistra si può ammirare la Cappella Paolina, eretta per volontà di Paolo V Borghese da Flaminio Ponzio, tra il 1605 ed il 1615.
6 Salus Populi Romani
La Cappella, ornata con marmi antichi di diversa provenienza, custodisce il monumento funebre di Paolo V, quello di Clemente VIII e la Sacra Immagine della Madonna più cara ai romani, la “Salus Populi Romani” (nella foto 6), ovvero la “Salvezza del Popolo Romano”. Si tratta di un’icona bizantina, ospitata in questa Cappella fin dal 1611 espressamente per volere di Paolo V e rappresenta Maria che reca in braccio il Bambino Gesù, il quale con una mano benedice e con l’altra sorregge un libro, probabilmente quello dei Vangeli. La Madre è raffigurata nel compimento dello stesso gesto, con la mano destra che tuttavia non è sollevata, ma si ricongiunge all’altra, nella quale tiene una pergamena arrotolata, incrociando le braccia sulle piccole ginocchia del Figlio. L’opera è di datazione incerta, collocabile tra l’VIII ed il XII secolo ed è considerata la principale patrona di Roma; il suo nome deriva dalla consuetudine di portarla in processione per le vie romane per scongiurare pericoli e disgrazie, o per porvi fine, come nel caso delle pestilenze. Un documento del 1240 attesta che essa era nota in passato con il titolo di Regina Coeli. Degne di nota anche la Cappella Sforza, costruita nel 1573 da Giacomo Della Porta su disegno di Michelangelo e la Cappella Cesi, con i bellissimi affreschi del Sermoneta e di Guidetto Guidetti. Il campanile, il più alto di Roma (75 metri), fu costruito nel 1370 per volontà di Gregorio XI, anche se fu portato a termine grazie ai finanziamenti del cardinale d’Estouteville quasi un secolo dopo, mentre a Giulio II si deve la copertura piramidale sulla quale svetta la croce infissa in una palla di rame dorato. I primi due piani presentano doppie monofore mentre i tre piani successivi bifore binate su colonnine marmoree inscritte in una monofora; dischi concavi di maiolica verde, associati a liste di marmo bianco, completano la decorazione delle facciate.
Nel XVI secolo vi era collocato un orologio per le ore latine, poi sostituito da quello attuale dalle dodici ore in occasione della ricostruzione del Fuga. Fino al secolo scorso la cella campanaria ospitava una campana chiamata “la Sperduta”, perché si racconta che una pellegrina, venendo a Roma a piedi, avesse perso la strada e che si fosse raccomandata alla Vergine per essere aiutata. Subito udì i rintocchi della campana, seguendo i quali raggiunse la basilica di S.Maria Maggiore e quindi la salvezza. In ricordo del fatto la pellegrina lasciò una rendita affinché alle 2 di notte (oggi alle 21) venisse perpetuamente suonata la campana: la Sperduta, realizzata da Guidotto ed Andrea Pisano nel 1289, dalla fine del 1800 si trova nella Galleria di Urbano VIII presso i Musei Vaticani, sostituita da un’altra campana, altrettanto antica in quanto risale al XIII secolo, donata da Leone XIII. Sulla piazza antistante l’ingresso della basilica, in piazza S.Maria Maggiore, sorge (nella foto 7) l’unica colonna di marmo rinvenuta integra nella basilica di Massenzio e che sorreggeva, insieme ad altre sette, la grandiosa volta centrale. La “Colonna della Pace” (così fu nominato il monumento) fu eretta da Carlo Maderno nel 1614 per volontà di Paolo V, il quale volle porvi sopra la statua bronzea della “Vergine con Bambino” di Guillaume Berthélot ed Orazio Censore. Si racconta che tale opera fu compiuta in tale brevissimo tempo e senz’altro danno che la caduta, senza conseguenze, di una guardia svizzera dall’alto di un’impalcatura, che il pontefice, entusiasta, elargì grandi premi ai lavoratori che avevano preso parte ai lavori.
Ai piedi della Colonna è situata una fontana (nella foto 8) costituita da una grossa vasca oblunga di travertino, modanata, rialzata dal livello stradale tramite quattro gradini di graniglia ed un gradone che la elevano di circa due metri. Al centro della vasca, sollevato su un balaustro, s’innalza un catino circolare dal quale si diparte un breve zampillo d’acqua. Oggi la fontana è priva dei due draghi araldici dei Borghese che gettavano acqua e che il Maderno pose sui lati lunghi, mentre le aquile, altro emblema della famiglia Borghese, versano ancora acqua nelle vaschette dei lati brevi. Forse i draghi andarono perduti durante i lavori di sistemazione del livello stradale eseguiti nell’Ottocento: fu probabilmente sempre in questa occasione che il catino venne sostituito e che scomparve la fontana-abbeveratoio posta a ridosso della Colonna, ma dalla parte opposta.
9 Obelisco Esquilino
La sistemazione della retrostante piazza dell’Esquilino (nella foto 9), dove si affaccia l’abside della basilica alla quale si accede tramite una bella scalinata, si deve a papa Sisto V e risulta dall’unione delle due antichissime piazzette “del Pozzo Roncone” e “delle Case d’Orlando”; qui il pontefice fece erigere un obelisco di granito, alto 14,75 metri, privo di geroglifici, quindi non databile e d’ignota provenienza. Il monolite, collocato originariamente dinanzi all’ingresso del Mausoleo di Augusto, insieme all’altro obelisco che si trova oggi in piazza del Quirinale, fu rinvenuto nel 1519 nei pressi della chiesa di S.Rocco, sepolto e spezzato in tre parti. Recuperato, fu abbandonato in quella zona per vari anni, finché nel 1587 papa Sisto V incaricò Domenico Fontana di collocarlo nella sede attuale, in piazza dell’Esquilino, ma in pratica lungo la cosiddetta “strada Felice”, il lungo rettifilo ancora oggi visibile, seppur frazionato, nelle via Sistina, via delle Quattro Fontane, via Agostino Depretis, via Carlo Alberto, via Conte Verde e via di S.Croce in Gerusalemme e che congiungeva Trinità dei Monti a S.Croce in Gerusalemme: Felice è il nome di battesimo di papa Sisto V Peretti che commissionò l’opera.
La Basilica di Santa Maria Maggiore, situata sulla sommità del colle Esquilino, è una delle quattro Basiliche Papali di Roma ed è la sola che abbia conservato le strutture paleocristiane. Una nota tradizione vuole che sia stata la Vergine ad indicare ed ispirare la costruzione della sua dimora sull’Esquilino. Apparendo in sogno al patrizio Giovanni ed al papa Liberio, chiese la costruzione di una chiesa in suo onore, in un luogo che Essa avrebbe miracolosamente indicato. La mattina del 5 agosto, il colle Esquilino apparve ammantato di neve. Il papa tracciò il perimetro della nuova chiesa e Giovanni provvide al suo finanziamento. Di questa chiesa non ci resta nulla se non un passo del Liber Pontificalis dove si afferma che papa Liberio “Fecit basilicam nomini suo iuxta Macellum Liviae”. Anche i recenti scavi effettuati sotto l’attuale basilica, pur portando alla luce importanti testimonianze archeologiche come lo stupendo calendario del II-III secolo d.C. e come i resti di mura romane parzialmente visibili visitando il museo, non ci hanno restituito nulla dell’antica costruzione. Il campanile, in stile romanico rinascimentale, si staglia per 75 metri ed è il più alto di Roma. É stato costruito da Gregorio XI al suo ritorno a Roma da Avignone e ospita alla sommità cinque campane. Una di esse, “la sperduta”, ripete ogni sera alle ventuno, con suono inconfondibile, un richiamo per tutti i fedeli. Entrando nel portico, a destra, è situata la statua di Filippo IV di Spagna, benefattore della Basilica. Il bozzetto dell’opera, realizzata da Girolamo Lucenti nel XIII secolo, è di Gian Lorenzo Bernini.
Al centro la grande porta di bronzo realizzata da Ludovico Pogliaghi nel 1949, con episodi della vita della Vergine, i profeti, gli Evangelisti e le quattro donne che nell’Antico Testamento prefigurarono la Madonna. A sinistra la Porta Santa, benedetta da Giovanni Paolo II l’8 dicembre del 2001, portata a compimento dallo scultore Luigi Mattei e offerta alla basilica dall’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme.
Al centro Cristo risorto, il modello è l’uomo della Sindone, che appare a Maria, rappresentata come la Salus Populi Romani. In alto a sinistra l’Annunciazione al pozzo, episodio tratto dai Vangeli apocrifi, a destra la Pentecoste.
In basso nel lato sinistro, il Concilio di Efeso, che stabilì Maria quale THEOTÒKOS, a destra il Concilio Vaticano II che La volle Mater Ecclesiae.
Lo stemma di Giovanni Paolo II e il suo motto sono rappresentati nella parte alta, mentre i due in basso appartengono al Cardinale Furno, che fu arciprete della Basilica, e all’Ordine del Santo Sepolcro. L’attuale basilica risale essenzialmente al V secolo d.C.. La sua costruzione è legata al Concilio di Efeso del 431 d.C. che proclamò Maria Theotòkos, Madre di Dio, e fu voluta e finanziata da Sisto III quale Vescovo di Roma. Entrando si prova una viva impressione nel vedere la sua vastità, lo splendore dei suoi marmi e la ricchezza della decorazione; l’effetto monumentale e grandioso è dovuto principalmente alla forma della struttura della basilica e all’armonia che regna nei principali elementi della sua architettura. Costruita secondo i canoni del “ritmo elegante” di Vitruvio, la basilica è divisa in tre navate da due file di preziose colonne sulle quali corre un’artistica trabeazione ora interrotta verso l’abside da due arcate realizzate per la costruzione della Cappella Sistina e Paolina. Tra i colonnati ed il soffitto, le pareti erano in origine traforate da ampie finestre delle quali se ne conservano solo metà essendo state murate le altre. Dove erano le finestre, oggi è possibile ammirare una serie di affreschi che rappresentano “Storie della vita di Maria”. Al di sopra delle finestre e degli affreschi, un fregio ligneo decorato da squisiti intagli rappresentanti una serie di tori cavalcati da amorini si unisce alla cornice del soffitto. I tori sono il simbolo dei Borgia e gli stemmi di Callisto III e Alessandro VI, i due papi Borgia, spiccano al centro del soffitto. Non è ben chiaro quale fu il contributo di Callisto III alla realizzazione di quest’opera, certo è che chi la realizzò fu Alessandro VI che vi pose mano quando era ancora arciprete della Basilica: il soffitto venne disegnato da Giuliano da Sangallo e completato da suo fratello Antonio. La tradizione vuole che la doratura sia stata realizzata con il primo oro proveniente delle Americhe che Isabella e Ferdinando di Spagna offrirono ad Alessandro VI. Come uno splendido tappeto, si stende ai nostri piedi il pavimento a mosaico realizzato dai mastri marmorari Cosma e offerto ad Eugenio III nel XII secolo, da Scoto Paparoni e suo figlio Giovanni, due nobili romani. L’unicità di Santa Maria Maggiore è dovuta però agli splendidi mosaici del V secolo, voluti da Sisto III che si snodano lungo la navata centrale e sull’arco trionfale. I mosaici della navata centrale riassumono quattro cicli di Storia Sacra i cui protagonisti sono Abramo, Giacobbe, Mosè e Giosuè e nel loro insieme, vogliono testimoniare la promessa di Dio al popolo ebraico di una terra e il suo aiuto per raggiungerla. Il racconto, che non segue un ordine cronologico, inizia sulla parete sinistra presso l’arco trionfale con il sacrificio incruento di Melchisedek, re-sacerdote. In questo riquadro è evidente l’influenza iconografica romana. Melchisedek, rappresentato nella posa dell’offerente, ed Abramo, in toga senatoria, ricordano il gruppo equestre del Marco Aurelio. I pannelli successivi illustrano episodi della vita di Abramo anteriori al primo riquadro. Ciò ha fatto a lungo credere che ogni riquadro fosse fine a se stesso fino a quando, approfondendo lo studio dei mosaici, non si è capito che la decorazione fu studiata e voluta. Il pannello con Melchisedek serve a raccordare i mosaici della navata con quelli dell’arco trionfale dove viene raccontata l’infanzia di Cristo re e sacerdote.
Poi inizia il racconto con Abramo, il personaggio più importante dell’Antico Testamento, colui al quale Dio promette una “nazione grande e potente”; con Giacobbe, a cui il Signore rinnova la promessa fatta ad Abramo; con Mosè che libererà il popolo dalla schiavitù in cui era nato rendendolo “popolo eletto”; con Giosuè che lo condurrà nella terra promessa. Il cammino si conclude con due pannelli, realizzati ad affresco al tempo dei restauri voluti dal Cardinal Pinelli, che rappresentano Davide che conduce l’Arca dell’Alleanza in Gerusalemme e il Tempio di Gerusalemme edificato da Salomone. È dalla stirpe di Davide che nascerà Cristo la cui infanzia è illustrata, attraverso episodi tratti dai Vangeli apocrifi, nell’arco trionfale.
Nel 1995 Giovanni Hajnal realizzò una nuova vetrata nel rosone della facciata principale. In essa è raffigurata l’affermazione del Concilio Vaticano II, dove Maria, eccelsa figlia di Sion, è l’anello di congiunzione tra la Chiesa del Vecchio Testamento, rappresentata dal candelabro a sette braccia, e quella del Nuovo simboleggiata dal calice con l’Eucaristia.
L’arco trionfale si compone di quattro registri: in alto da sinistra l’Annunciazione, in cui Maria è rappresentata vestita come una principessa romana, con in mano il fuso con cui tesse un velo di porpora destinato al tempio di cui era inserviente. Il racconto prosegue con l’annuncio a Giuseppe, l’adorazione dei Magi, la strage degli innocenti. In questo riquadro è da osservare la figura con il manto azzurro che dà le spalle alle altre donne: è Santa Elisabetta che fugge con S. Giovanni fra le braccia. A destra la presentazione al Tempio, la fuga in Egitto, l’incontro della Sacra Famiglia con Afrodisio, governatore della città di Sotine. Secondo un Vangelo apocrifo, quando Gesù giunge fuggiasco a Sotine, in Egitto, i 365 idoli del capitolium cadono. Afrodisio atterrito dal prodigio e memore della fine del Faraone, va con il suo esercito incontro alla Sacra Famiglia e adora il Bambino riconoscendone la divinità. L’ultimo riquadro rappresenta i Magi al cospetto di Erode. Ai piedi dell’arco le due città di Betlemme a sinistra e Gerusalemme a destra. Se Betlemme è il luogo dove Gesù nasce e dove avviene la sua prima Epifania, Gerusalemme è la città dove Egli muore e risorge (c’è un legame con il tema apocalittico della sua definitiva venuta alla fine dei tempi, evidenziato dal trono vuoto al centro dell’arco, trono affiancato da Pietro e Paolo, il primo chiamato da Cristo a diffondere la “Buona notizia” fra gli ebrei, l’altro fra i Gentili, i pagani). Tutti insieme formeranno la Chiesa di cui Pietro è guida e Sisto III suo successore. In quanto tale e come “episcopus plebi Dei” spetta a lui condurre il popolo di Dio verso la Gerusalemme celeste. Nel XIII secolo Niccolò IV, primo Papa francescano, decise di abbattere l’abside originale e di costruire l’attuale arretrandola di qualche metro, ricavando così tra essa e l’arco un transetto per il coro. La decorazione dell’abside fu eseguita dal francescano Jacopo Torriti e i lavori furono pagati dai Cardinali Giacomo e Pietro Colonna.
Il mosaico di Torriti si divide in due parti distinte: nella conca absidale c’è l’Incoronazione della Vergine, nella fascia sottostante sono rappresentati i momenti più importanti della Sua vita. Al centro della conca, racchiusi in un grande cerchio, Cristo e Maria sono seduti su di un grande trono raffigurato come un divano orientale. Il Figlio sta ponendo sul capo della Madre la corona gemmata.
Nel mosaico Maria non è vista solo come la Madre, ma piuttosto come la Chiesa Madre, sposa del Figlio.
Ai loro piedi il sole e la luna e intorno cori di angeli adoranti a cui si aggiungono S. Pietro, S. Paolo, S. Francesco d’Assisi e il papa Niccolo IV a sinistra; Giovanni Battista, Giovanni Evangelista, Sant’Antonio e il donatore Cardinal Colonna a destra.
Nel resto dell’abside una decorazione a racemi germoglia da due tronchi posti all’estrema destra e all’estrema sinistra del mosaico. Nella fascia alla base dell’abside le scene della vita della Madonna sono disposte a destra e a sinistra della “Dormitio” collocata proprio sotto l’Incoronazione. Questo modo di descrivere la morte della Vergine è tipico dell’iconografia bizantina, ma si diffuse anche in Occidente dopo le Crociate. La Vergine è sdraiata sul letto e, mentre gli angeli si preparano a togliere dallo sguardo attonito degli Apostoli il suo corpo, Cristo prende tra le braccia la sua “anima” bianca, attesa in cielo. Torriti arricchisce la scena con due piccole figure di francescani e di un laico con il berretto duecentesco. Al di sotto della “Dormitio” papa Benedetto XIV collocò la splendida “Natività di Cristo” del Mancini. Tra i pilastri ionici sotto i mosaici, sono stati collocati da Fuga i bassorilievi di Mino del Reame che rappresentano la Nascita di Gesù, il miracolo della neve e la fondazione della basilica da parte di papa Liberio, l’Assunzione di Maria e l’Adorazione dei Magi. Sempre di Fuga è il baldacchino che sovrasta l’altare centrale davanti al quale si apre la Confessione, voluta da Pio IX e realizzata da Vespignani, dove è collocato il reliquiario della Culla. Il reliquiario è in cristallo, a forma di culla, e contiene pezzi di legno che la tradizione vuole appartenere alla mangiatoia su cui fu deposto Gesù Bambino. Fu eseguito da Valadier e donato dall’ambasciatrice del Portogallo. La statua di Pio IX, il papa del dogma dell’Immacolata Concezione è opera di Ignazio Jacometti e fu collocato nell’ipogeo per volontà di Leone XIII.
IL Pavimento
Entrando nella Basilica si rimane ammirati dalla particolarità del pavimento a mosaico dei maestri marmorari Cosma detti “cosmateschi” (sec. XIII).
Cappella Cesi
Voluta dal Cardinale Paolo Emilio Cesi e dal fratello Federico fu realizzata intorno al 1560 e non se ne conosce l’autore, anche se si ritiene che sia stata progettata da Guidetto Guidetti, in collaborazione con Giacomo Della Porta.
Regina Pacis
La statua della Regina Pacis, voluta da Benedetto XV in ringraziamento per la fine della prima guerra mondiale, è stata realizzata da Guido Galli. Sul volto della Madonna, seduta in trono “Regina Pacis e Sovrana dell’universo”, si nota un senso di tristezza.
La Cappella Sforza
A fianco dell’ingresso due lapidi ricordano che la cappella fu realizzata grazie al cardinale Guido Ascanio Sforza di Santafiora, arciprete della basilica, e suo fratello, il cardinale Alessandro Sforza Cesarini, che ne curò la decorazione eseguita nel 1573. Secondo il Vasari, autore del progetto era stato Michelangelo Buonarroti, il quale ci ha lasciato due schizzi ad esso relativi, dove è ben visibile l’originale pianta con ellissi sui lati ed un vano rettangolare che accoglie l’altare. I ritratti inseriti nei monumenti funebri e la pala d’altare (1573) sono stati attribuiti a Gerolamo Siciolante da Sermoneta (1521-1580). La tavola quadrata sull’altare è del Siciolante e rappresenta l’Assunzione della Vergine la cui scansione dei piani è ben organizzata per passare senza scosse dall’ambiente terreno a quello celeste, dove la figura di Maria siede discreta in atto di preghiera.
La tomba del Bernini
“Nobile famiglia Bernini qui aspetta la Resurrezione”. Di lato all’altare maggiore, la semplicità della lastra tombale di uno dei più grandi artisti del ‘600.
La «Custodia della Sacra Culla di Nostro Signore Gesù Cristo»
Il reliquiario opera di Giuseppe Valadier del 1802.
La maestosa chiesa barocca di S.Ignazio (nella foto sopra) sorge sulla piazza omonima e fu costruita dal cardinale Ludovico Ludovisi nel 1626 in onore di S.Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù. La chiesa fu edificata adiacente al Palazzo del Collegio Romano e sostituì la cinquecentesca chiesa di “S.Maria Annunziata“, fortemente voluta da Vittoria Frangipane, marchesa della Tolfa, moglie di Camillo Orsini e nipote di Paolo IV. La chiesa dell’Annunziatina (così era popolarmente denominata) sorgeva pressappoco a metà dell’attuale via di S.Ignazio e fu costruita dall’architetto gesuita Giovanni Tristano nel 1567 affinché servisse al Collegio Romano. L’episodio alla quale è legata la storia di questa chiesetta, dandole sicuramente lustro ed onore, fu quello di accogliere e custodire, nel 1623, le spoglie di Gregorio XV, fino alla tumulazione definitiva nella chiesa di S.Ignazio. Già alla fine del Cinquecento, però, la piccola chiesa risultava insufficiente rispetto alle necessità del gran numero di collegiali: fu così che il cardinale Ludovico Ludovisi, nipote di Gregorio XV, nel 1620 ebbe l’idea di erigere una chiesa importante in onore di S.Ignazio. Il progetto di realizzazione venne affidato ad Orazio Grassi che si avvalse dei disegni di Carlo Maderno, Paolo Martucelli ed Orazio Torriani: l’area per l’edificazione della nuova chiesa fu ricavata dalla parte vecchia del Collegio, quella donata dalla marchesa Frangipane, nella quale furono demoliti vari ambienti. La cerimonia della prima pietra avvenne nel 1626 e la chiesa fu aperta al pubblico, in via provvisoria, nel 1650, con l’interno parzialmente sbarrato fino alla prima linea della crociera: si dovettero attendere ancora ben 35 anni affinché fosse completata, anche se la cerimonia di consacrazione avvenne soltanto nel 1722. La facciata (nella foto sotto il titolo) è a due ordini orizzontali: quello inferiore, scandito da colonne e paraste binate, presenta un portale centrale, inquadrato da due colonne con capitelli corinzi e fiancheggiato da due nicchie vuote, e due portale minori laterali; l’ordine superiore presenta un finestrone con due nicchie ai lati. Tra i due ordini corre la seguente iscrizione: “S(ANCTO) IGNATIO SOC(IETATIS) IESU FUNDATORI LUD(OVICUS) CARD(INALIS) LUDOVISIUS S(ANCTAE) R(OMANAE) E(CCLESIAE) VICE CANCELLAR(IUS) A(NNO) DOM(INI) MDCXXVI”, ovvero “A S.Ignazio fondatore della Compagnia di Gesù il cardinale Ludovico Ludovisi Vice Cancelliere di Santa Roma Chiesa nell’Anno del Signore 1626”. Un timpano con la croce, con sei candelabri e lo stemma Ludovisi, corona la facciata. L’interno presenta una pianta a croce latina, con un presbiterio absidato e sei cappelle laterali: a destra troviamo la Cappella di S.Cristoforo, la Cappella di S.Giuseppe o Cappella Sacripante, disegnata da Nicola Michetti e realizzata a spese del cardinale Giuseppe Sacripante, e la Cappella di S.Gioacchino; a sinistra la Cappella del Crocifisso, dove si trova un crocifisso del XVIII secolo, la Cappella di S.Francesco Saverio e la Cappella di S.Gregorio Magno.
Osservando le geometrie dei marmi sul pavimento, si può notare un disco giallo posto al centro della navata centrale che indica il punto migliore da cui osservare il meraviglioso affresco della volta, opera dell’architetto gesuita Andrea Pozzo, che ha realizzato un gioco di prospettiva che dà la sensazione di uno spazio infinito: vi è raffigurata la “Gloria di S.Ignazio” (nella foto 1), con un raggio di luce che si irradia dal costato del Cristo ed illumina il Santo, riflettendosi verso le quattro figure allegoriche che rappresentano i quattro continenti allora conosciuti, rappresentati da giovani donne sedute su animali: Europa con scettro e corona sopra un cavallo, Asia con lo sguardo verso il cielo sopra un cammello, Africa, una donna di colore con capelli crespi, sopra un coccodrillo e America con corona di piume sopra un puma.
Procedendo verso l’altare si trova un altro disco giallo da cui ammirare l’opera più famosa di padre Pozzo, la Finta Cupola (nella foto 2), una tela di 17 metri di diametro realizzata nel 1685 con una fantastica prospettiva per sopperire alla mancanza della reale cupola progettata e mai realizzata.
Anche il presbiterio e l’abside (nella foto 3) sono opere di Andrea Pozzo ed anche qui l’effetto prospettico stupisce: tre affreschi tra finte colonne scanalate diritte su una superficie che sembra poligonale mentre in realtà è concava. Le pitture illustrano i momenti fondamentali della vocazione di S.Ignazio e degli inizi della Compagnia di Gesù. Sull’altare è situata la Visione di S.Ignazio a La Storta (sulla via Cassia), a destra S.Ignazio accoglie S.Francesco Borgia nella Compagnia di Gesù ed a sinistra l’Invio di S.Francesco Saverio nelle Indie. Nella volta e nel catino absidale sono rappresentati l’Assedio di Pamplona ed il ferimento del Santo, e la Gloria di S.Ignazio attraverso la cui intercessione gli appestati vengono guariti.
Nel transetto destro troviamo l’altare dedicato a S.Luigi Gonzaga (nella foto 4) realizzato da Andrea Pozzo nel 1698. La pala di marmo al centro rappresenta la Gloria di S.Luigi Gonzaga, con le allegorie della Penitenza e della Purezza in alto, mentre sotto l’altare è situata l’urna in lapislazzuli contenente i resti del santo.
Nel transetto sinistro l’altare è dedicato alla Ss.Annunziata ed a S.Giovanni Berchmans (nella foto 5), opera di Francesco Cerroti del 1749: l’urna contiene le spoglie di S.Giovanni Berchmans, studente in filosofia del Collegio Romano, morto nel 1621 e qui trasferito nel 1873. La pala marmorea, opera di Filippo della Valle, rappresenta l’Annunziata.
A destra del presbiterio è situata la Cappella Ludovisi con il Monumento funebre di papa Gregorio XV e del cardinale Ludovico Ludovisi (nella foto 6), realizzato tra il 1709 ed il 1717 su disegno dello scultore Pierre Legros; le due statue alate con la tromba in alto sono rappresentazioni allegoriche della Fama ed ai lati dell’urna si trovano le figure della Religione e della Munificenza, tutte attribuite allo scultore francese Pierre Etienne Monnot, mentre in basso si trova il medaglione funebre del cardinale Ludovisi tra due puttini di Pierre Legros. Nelle nicchie angolari della Cappella Ludovisi sono collocate le quattro statue in stucco raffiguranti le Virtù realizzate tra il 1685 ed il 1686 dallo scultore Camillo Rusconi, (la Fortezza, la Giustizia, la Prudenza e la Temperanza). A sinistra del presbiterio è situata la gigantesca Statua di S.Ignazio, opera di Camillo Rusconi del 1728, modello di quella in marmo realizzata per la Basilica Vaticana. Legata alla chiesa di S.Ignazio è la bellissima tradizione romana dell’Ottocento: la caduta della “palla” dal cornicione della chiesa. Alle ore 11,56 veniva innalzata, sul timpano della chiesa, un’asta di pino lunga 6 metri lungo la quale una gran palla di vimini dipinta di nero veniva fatta scendere alle 12.00 in punto: la discesa era il segnale per il colpo di cannone sparato da Castel S.Angelo (in seguito trasferito a Monte Mario ed infine al Gianicolo). L’esattezza dell’ora era determinata dal collegamento tra la chiesa e l’attiguo Palazzo del Collegio Romano che ospitava l’Osservatorio Astronomico.
Dinanzi alla chiesa si apre la piazza di S.Ignazio, realizzata dall’architetto Filippo Raguzzini tra il 1727 ed il 1728 con un aspetto rococò offerto dagli edifici che tanto ricordano i panciuti mobili d’epoca e per questo soprannominati “canterani” o “burrò” (nella foto 7), dal francese “bureaux”. La tradizione vuole che gli edifici siano stati costruiti appositamente in modo così particolare per attrarre l’attenzione del viandante e distoglierla dalla facciata esageratamente alta della chiesa.
S.Maria della Pace (nella foto sopra), situata in via dell’Arco della Pace, sorge in luogo dell’antica “S.Andrea de Acquarenariis“, nome che deriva dai numerosi venditori di acqua presenti nella zona, i quali, attingendo direttamente dal Tevere, dovevano purgare l’acqua dalla “rena” che vi era mescolata. La leggenda narra che nel 1480 un’immagine della Vergine posta sotto il portico (nella foto 1, oggi situata sull’altare maggiore), colpita da un sasso lanciato da un soldato ubriaco, si mise a sanguinare. Papa Sisto IV, informato dell’accaduto, si recò personalmente sul luogo e fece cambiare il nome della chiesa in “S.Maria della Virtù“, promettendo di rimediare allo stato fatiscente dell’edificio.
Così avvenne nell’anno 1482, anche se i lavori terminarono due anni dopo sotto Innocenzo VIII: la chiesa venne chiamata S.Maria della Pace per commemorare la conclusa pace di Bagnolo, l’atto che poneva fine alla Guerra di Ferrara tra la Repubblica di Venezia e il duca di Ferrara, Ercole d’Este. Il progetto della nuova chiesa fu affidato all’architetto Baccio Pontelli mentre nei primi anni del 1500 il Bramante realizzò il chiostro ed il convento annessi. Il chiostro (nella foto 2), in particolare, rappresenta e costituisce il più bell’esempio di corte del primo Rinascimento a Roma, segnando un armonico rinnovamento nella costruzione delle logge: alle quattro arcate del pianterreno, tutte rette da pilastri dorici su cui sono addossate paraste ioniche, corrisponde nella loggia superiore una duplicazione degli elementi portanti, dove pilastri compositi si alternano a colonne corinzie che cadono in asse con le chiavi degli archi sottostanti, creando otto aperture per lato, sopra le quali un architrave prende il posto degli archi a tutto sesto.
I due ordini sono separati dall’iscrizione dedicatoria che corre lungo la trabeazione: “DEO OPT MAX ET DIVE MARIE VIRGINI GLORIOSE DEIPARE CANONICIS QZ REGULARIBUS CONGREGATIONIS LATERANENSIS OLIVERIUS CARRAPHA EPS HOSTIENSIS CARD NEAPOLITAN PIE AFUNDAMENTIS EREXIT ANNO SALVATIS CRISTIANE MDIIII“, ossia “Oliviero Carafa vescovo di Ostia e cardinale di Napoli eresse dalle fondamenta a Dio Ottimo Massimo e alla divina Maria Vergine gloriosa madre di Dio per i Canonici Regolari della Congregazione Lateranense nell’anno della salvezza cristiana 1504”. I riferimenti al cardinale sono diffusi un po’ ovunque con altre iscrizioni incise sui fregi dei portali o con il suo emblema, sormontato dal cappello cardinalizio, scolpito sui pilastri angolari del pianterreno. Nel 1656 venne realizzata la splendida facciata convessa (nella foto sotto il titolo) per volontà di Alessandro VII Chigi e per opera di Pietro da Cortona: al pianterreno, coppie di colonne sorreggono il caratteristico portico semicircolare, al di sopra del quale corre un’iscrizione che, tradotta dal latino, così recita: “Portino i monti la pace al popolo e i colli la giustizia”, in riferimento alle sei cime dello stemma Chigi di Alessandro VII, situato sotto il portico stesso. Sopra di esso il secondo ordine, anche questo leggermente convesso e scandito da lesene e specchiature, costituito da un finestrone e da un maestoso doppio timpano. Ai lati della chiesa si dipartono due alti pilastri con colonne ornati da putti che sostengono cornici (dedicate ad Alessandro VII quella di destra e a Sisto IV quella di destra) e raccordati alla chiesa tramite passaggi a piattabanda e due corpi di fabbrica concavi. La cupola fu aggiunta solo nel 1524 su progetto di Antonio da Sangallo il Giovane ed è ornata da stucchi di Pietro da Cortona e da pitture del Peruzzi e di Carlo Maratta.
Si accede alla chiesa attraverso l’antico portale quattrocentesco: l’interno è a navata unica ed ospita la bellissima Cappella Chigi (nella foto 3), la prima a destra, eretta, su commissione del banchiere senese Agostino Chigi su disegno di Raffaello (poi allestita e completata da Pietro da Cortona), che ideò e realizzò anche l’affresco raffigurante “Sibille e Angeli”, posto sopra l’arco della cappella, nonché i quattro “Profeti” nella soprastante lunetta, poi eseguiti dal suo allievo Timoteo Viti nel 1514. Il corredo scultoreo è dominato dall’altorilievo raffigurante “Cristo trasportato dagli angeli” posto sull’altare, opera bronzea di Cosimo Fancelli, autore anche dei due santi laterali eseguiti in collaborazione con Ercole Ferrata, ovvero “S.Caterina” e “S.Bernardino”. Degne di nota anche la Cappella Cesi, opera di Antonio da Sangallo il Giovane, e la Cappella Mignanelli, ornata di splendidi marmi provenienti dallo scomparso “Tempio di Giove Ottimo Massimo“.
We Shall Overcome è una canzone di protesta pacifista che divenne un inno del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.
Le Terme di Diocleziano furono le più grandi terme tra tutte quelle realizzate a Roma e nel mondo romano. Costruite in meno di otto anni, tra il 298 ed il 306 d.C., sugli ex “Horti Lolliani“, le Terme sorsero nella zona alta pianeggiante tra il Viminale ed il Quirinale, nell’area oggi compresa tra piazza della Repubblica e piazza dei Cinquecento e tra le vie Volturno e Venti Settembre. Per ottenere lo spazio necessario alla gigantesca costruzione che occupava un’area di circa 380 x 370 metri fu letteralmente abbattuto un quartiere con numerosi edifici privati e case d’abitazione (debitamente acquistati) e sconvolta la viabilità preesistente.
Per quanto riguarda il rifornimento idrico fu costruita una diramazione dell’Acqua Marcia detta Iovia (ovvero “di Giove”) che iniziava dopo la porta Tiburtina e terminava in una grande cisterna di forma trapezoidale (divisa in più navate da file di pilastri e lunga oltre 91 metri) popolarmente detta “Botte di Termini“, i cui resti furono demoliti nel 1876 per la costruzione della stazione ferroviaria che dalle Terme stesse prese il nome di Stazione Termini. Con l’aiuto della piantina 1 possiamo notare che lo schema planimetrico era caratterizzato da un recinto quadrangolare che racchiudeva una vasta area aperta al centro della quale si trovava l’edificio balneare.
I quattro lati del recinto, che misurava metri 361 x 376 circa, erano dotati di esedre ed altri ambienti rivolti verso l’interno: il lato nord-orientale (lungo l’attuale via Gaeta ed attraverso il chiostro grande della Certosa), aveva al centro, quasi in asse con l’attuale via Montebello, l’ingresso principale; i due lati di nord-ovest e di sud-est (oggi delimitati, rispettivamente, da via Parigi e da viale Enrico De Nicola) avevano, regolarmente intervallate, esedre ed ambienti minori, alcuni dei quali, al centro, presentavano ingressi secondari. Il quarto lato si apriva al centro di un’enorme esedra (1) del diametro di circa 140 metri che serviva da cavea per assistere alle esercitazioni ginnastiche, oggi ripetuta nelle sue linee monumentali dal colonnato ricurvo dei palazzi (ben visibili nella foto in alto sotto il titolo) dell’architetto Koch che adornano i lati di piazza della Repubblica: per questo motivo il primo nome della piazza fu proprio piazza dell’Esedra, finché nel 1960 venne rinominata piazza della Repubblica. L’esedra era fiancheggiata da due sale rettangolari (2 e 3), all’interno delle quali si presume che siano state trasferite le due biblioteche, greca e latina, provenienti dal Foro di Traiano. Ai lati delle due sale vi erano ambienti minori e due sale rotonde (4 e 5), poste proprio alle due estremità del recinto, oggi ancora ben conservate: una (4) si è trasformata nella chiesa di S.Bernardo alle Terme, mentre i nudi muri di laterizio dell’altra sala (5) si possono vedere all’angolo di via del Viminale con piazza dei Cinquecento. L’edificio balneare, al centro dello spazio aperto tenuto principalmente a giardino, era di forma rettangolare, con i lati di metri 240 x 145 circa e presentava sull’asse minore la successione di natatio (6), frigidarium (7), tepidarium (8) e calidarium (9), mentre sull’asse maggiore, simmetricamente disposti ed uguali tra loro, i vestiboli e gli spogliatoi (10 e 11) ai lati della natatio, le palestre (12) con i portici ai lati della basilica, due serie di quattro sale affiancate (13, 14, 15 e 16) all’altezza del tepidarium e del calidarium. Per immaginarne la grandezza di questo complesso basti pensare che più di 3.000 persone erano in grado di utilizzare contemporaneamente i servizi dell’impianto termale. L’odierna facciata concava in laterizio di S.Maria degli Angeli rappresenta una delle due absidi centrali del calidarium (9), mentre i pochi resti di un’altra sono visibili sulla sinistra, dinanzi al civico 10 della Facoltà di Scienze della Formazione.
La Facoltà occupa, inoltre, le aule (14, 15 e 16) situate su una delle due ali fiancheggianti il calidarium (l’altra ala non esiste più), tagliata in due dall’odierna via Cernaia, oltre la quale si trova, pressoché intatta, l’aula a pianta quadrata (13) all’esterno ed ottagona all’interno, denominata appunto Aula Ottagona. Le quattro aule (13, 14, 15 e 16) furono utilizzate nel 1575 da papa Gregorio XIII per realizzare il primo Granaio pubblico (nella foto 2, denominato Granaio Gregoriano), come conferma il grande cartiglio (nella foto 3), situato in prossimità dell’angolo con via Cernaia e sovrastato dal grande stemma della famiglia Boncompagni alla quale il pontefice apparteneva, contenente la seguente iscrizione: “GREGORIUS XIII PONT MAX ADVERSUS ANNONAE DIFFICULTATEM SUBSIDIA PRAEPARANS HORREUM IN THERMIS DIOCLETIANIS EXSTRUXIT ANNO IOBILEI MDLXXV PONT SUI III”, ovvero “Gregorio XIII Pontefice Maximo preparando ripari per la difficoltà dell’Annona costruì un granaio nelle Terme di Diocleziano nell’Anno del Giubileo 1575, terzo del suo Pontificato”. La scelta ricadde su quest’area perché offriva condizioni climatiche e morfologiche particolarmente vantaggiose: più in alto rispetto all’abitato, al sicuro dalle frequenti inondazioni del Tevere, meno umida e più ventilata, condizioni queste indispensabili per la conservazione del cereale. Il progetto di Ottavio Mascarino fu portato a termine da Martino Longhi il Vecchio: si trattava del primo nucleo dell’Annona Pontificia, che fu successivamente ampliata nel 1609 da Paolo V (Granaio Paolino), nel 1630 da Urbano VIII (Granaio Urbano) e nel 1705 da Clemente XI (Granaio Clementino).
Nello Stato Pontificio, già a partire dal Medioevo, i pontefici tenevano sotto controllo la produzione cerealicola, emanando una notevole quantità di provvedimenti legislativi. Tre erano le magistrature preposte a questo importantissimo compito di controllo della produzione dei cereali, ma anche di altre derrate alimentari: l’Annona frumentaria, l’Annona olearia ed il Tribunale della Grascia. L’Annona frumentaria si occupava dell’acquisto e della requisizione di ingenti quantitativi di grano che venivano poi conservati nei granai annonari, in previsione di annate di scarso raccolto, ne fissava il prezzo d’acquisto e ne curava la distribuzione e la vendita agli stessi fornai. Gli stessi compiti, ma per il commercio dell’olio, esercitava l’Annona olearia. Il Tribunale della Grascia invece esercitava il suo potere sugli altri commestibili (vino, olio, carne, bestiame ed altre derrate alimentari), requisendoli, fissandone il prezzo, decidendo se proibirne l’esportazione o no. Con la soppressione dell’Annona nel 1816, per volontà di Pio VII e del suo segretario di Stato cardinal Consalvi, l’edificio fu destinato nei due secoli successivi a vari usi civili: nel 1817 divenne il Deposito della mendicità, nel 1824 Pia Casa d’Industria e di Lavoro, dove i ragazzi poveri potevano imparare un mestiere, poi ospizio per anziani. Nel 1827 vi fu trasferito il carcere femminile di S.Michele a cui si aggiunse, nel 1831, quello maschile. Dopo il 1874 il Comune di Roma fece degli ex-granai gregoriani, dove era il carcere femminile, la sede della Scuola Normale Femminile. Nel 1992 l’edificio divenne la sede della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre, mentre oggi è sede della Facoltà di Scienze della Formazione. L’aula Ottagona (13), tuttora conosciuta come il Planetario (nella foto 4), come annuncia l’iscrizione posta all’ingresso, sebbene il Planetario si sia trasferito all’EUR già da molti anni, ha ben 22 metri di diametro, con quattro nicchie semicircolari agli angoli ed una cupola a ombrello con occhio centrale.
L’aula è una delle varie sedi del Museo Nazionale Romano (che comprende anche le sedi della Crypta Balbi, di palazzo Massimo alle Terme e di palazzo Altemps) e custodisce alcune statue, in bronzo ed in marmo, provenienti da grandi complessi termali, come l’Apollo Liceo rinvenuto nelle Terme di Traiano, copia del II secolo d.C. da originale di Prassitele, e l’Afrodite di Cirene, copia della metà del II secolo d.C. di un’opera di epoca tardo-ellenistica; in precedenza vi erano custodite altre due statue molte belle e di grande importanza storica come il “Principe Ellenistico” ed il “Pugile in riposo“, rinvenute nel 1885 sul Quirinale, probabilmente sui resti delle Terme di Costantino, poi trasferite nella sede di Palazzo Massimo alle Terme. Via Cernaia taglia in due il complesso della palestra occidentale (12) alla quale appartengono, da una parte, i tre ambienti che si affacciavano affiancati lungo il suo lato orientale e dall’altra il muro di fondo absidato (visibile nella parallela via Parigi) del grande ambiente che era sul lato opposto. La chiesa di S.Maria degli Angeli (nella foto 5 la facciata) occupa invece l’area centrale delle terme (7, il “frigidarium“), mentre il vestibolo corrisponde al tepidarium (8), ovvero la sala per i bagni di acqua tiepida. La geniale trasformazione in chiesa si deve all’opera di Michelangelo, avvenuta tra il 1563 ed il 1566: l’immensa aula mantiene tuttora intatto l’aspetto antico, come le sue proporzioni, le sue misure (metri 27 x 91 circa, compresi i due ambienti laterali), la copertura con le tre enormi volte a crociera e soprattutto le otto imponenti colonne di granito rosa egiziano, monolitiche, alte circa 14 metri e con oltre 5 metri di circonferenza.
La chiesa subì vari interventi di restauro: in particolare, tra il 1727 ed il 1746 l’architetto Clemente Orlandi alterò profondamente il progetto michelangiolesco chiudendo le due entrate del transetto, lasciando solo l’entrata su piazza dell’Esedra, e murando tre degli arconi all’intersezione dei bracci al fine di ospitare le 12 pale d’altare provenienti dalla Basilica Vaticana. Pochi anni dopo, nel 1749, Luigi Vanvitelli diede al complesso l’aspetto attuale, soprattutto nella decorazione interna: creò anche una nuova facciata su piazza dell’Esedra con un portale a timpano raccordato alla chiesa tramite lesene e fasce orizzontali. Nel 1911 la facciata vanvitelliana fu rimossa per lasciare a vista la nicchia in laterizio del calidarium delle terme, come ancora oggi è possibile vedere, caratterizzata dai due ingressi ad arco. La chiesa custodisce vari monumenti funebri: nel vestibolo vi sono quelli di Carlo Maratta (nella foto 6), opera di Francesco Maratta, del cardinale Francesco Alciati, opera di G.B. Della Porta, di Salvator Rosa, opera di Bernardino Fioriti, ed infine quello di Pietro Tenerani, con busto autoritratto. L’interno della chiesa conserva le tombe di tre protagonisti della I Guerra Mondiale: il presidente del Consiglio dell’epoca Vittorio Emanuele Orlando, l’Ammiraglio Paolo Thaon Revel ed il Maresciallo Armando Diaz; nell’abside infine si trova la tomba di Pio IV.
Sul pavimento del braccio destro si trova una grandiosa meridiana (nella foto 7) denominata Linea Clementina, da Clemente XI che la fece disegnare, con i segni dello Zodiaco e le variazioni della stella polare. Delle antiche terme si conserva anche l’impronta della natatio (6), un’area di 2500 metri quadrati, oggi occupata al centro dalla tribuna vanvitelliana di S.Maria degli Angeli, che si allunga dal nicchione centrale e quadrato del monumentale prospetto antico, affiancato dagli altri quattro, alternativamente rettangolari e semicircolari. Quanto al recinto esterno, oltre alle già citate rotonde (4 e 5) del lato sudoccidentale, sono conservate anche le due esedre orientali del lato nord-est (17 e 18, entrambe ben visibili percorrendo via Gaeta), la più interna delle quali (17) era stata adibita a latrina. L’antica linea semicircolare dell’esedra è oggi ripetuta perfettamente dai due palazzi ad emiciclo realizzati tra il 1896 ed il 1902 da Gaetano Koch rievocando l’ambiente termale con i grandiosi portici dagli archi a tutto sesto e soffitto a cassettoni: il prospetto sviluppa sopra i portici in tre piani, con i primi due raccolti tra due fasce marcapiano di grande evidenza come autentiche trabeazioni con paraste ioniche giganti. Bello il coronamento con sculture in marmo.
Al centro della grande esedra si può ammirare oggi la bella Fontana delle Naiadi (nella foto in alto sotto il titolo e nella foto 8 in dettaglio), che costituisce la mostra dell’Acqua Marcia, addotta da Quinto Marcio Re nel 144 a.C. dall’alta valle dell’Aniene presso Arsoli. La storia di questa fontana inizia nella seconda metà dell’Ottocento, quando papa Pio IX impartì opportune disposizioni per la ricostruzione dell’antico Acquedotto Marcio: l’acqua, in onore del papa, fu denominata “Acqua Pia“. La prima mostra, costituita da una modesta vasca circolare a fior di terra, guizzante di zampilli sovrastati da quello centrale più potente, era priva di qualsiasi ornamento architettonico o scultoreo ed il 10 settembre 1870 fu posta, alla presenza del pontefice, presso piazza di Termini (come era denominata allora l’attuale piazza della Repubblica), seppure posta in una posizione più vicina alla Stazione Termini rispetto a quella attuale, all’incirca dove oggi si trova il monumento ai Caduti di Dogali. Gli eventi di quel tempo, indussero il popolo a coniare il motto: “Acqua Pia, oggi tua, domani mia“: dieci giorni dopo, infatti, con la presa di Roma, cadeva il potere temporale dei papi. Nel 1885, con l’approvazione del Piano Regolatore e l’avvio di importanti lavori di ristrutturazione urbana, venne decisa la sistemazione della grande piazza dell’Esedra e fu stabilito che la definitiva mostra dell’Acqua Marcia dovesse sorgere al centro della piazza stessa, a sfondo dell’asse di via Nazionale. Nel 1888, nell’area designata, venne costruita l’attuale fontana, su disegno dell’ing. A.Guerrieri: quattro modesti leoni di stucco furono sistemati sulla fontana, in occasione della visita a Roma dell’imperatore di Germania Guglielmo II. Doveva essere una sistemazione provvisoria, ma vi rimasero ben tredici anni. Nel 1897 fu approvato il progetto di Mario Rutelli (bisnonno di Francesco Rutelli) per l’allestimento della fontana, che preparò quattro colossali gruppi bronzei, raffiguranti quattro ninfe, ognuna di esse sdraiata su un animale acquatico, che simboleggiava l’acqua nelle sue diverse forme: un cavallo marino per la Ninfa degli Oceani, un serpente d’acqua per la Ninfa dei Fiumi, un cigno per la Ninfa dei Laghi, una lucertola per la Ninfa dei Fiumi sotterranei. Era il 1901: l’opera suscitò polemiche a non finire per la procacità dei nudi femminili, tant’è che la fontana rimase a lungo nascosta dentro un recinto ligneo, finché, la sera del 10 febbraio, primo giorno di Carnevale, alcuni studenti, stanchi di aspettare, abbatterono la recinzione. Ma la fontana non aveva ancora il gruppo centrale attuale: soltanto nel 1911 vi fu posto un gruppo scultoreo costituito da tre tritoni, un delfino ed un grosso polipo: i romani, sempre pronti alle battute salaci, lo avevano soprannominato “fritto misto” (il gruppo oggi è visibile nei giardini di piazza Vittorio Emanuele II).
Così, nel 1912, sempre ad opera del Rutelli, fu aggiunto il gruppo centrale attuale, del Glauco (nella foto 9), alto ben 5 metri, che simboleggia la dominazione dell’uomo sulla forza bruta della natura. È costituito da un uomo nudo, di struttura atletica, che stringe, tra le braccia vigorose, un guizzante delfino, dalla cui bocca si eleva, altissimo, un getto d’acqua che ricade sui numerosi zampilli laterali con magnifico effetto: anche questo fu ribattezzato, dai romani, “l’uomo col pesce in mano”.
Infine, da segnalare che accanto all’ingresso della chiesa di S.Maria degli Angeli è situato un bel portale bugnato (nella foto 10) sopra il quale si trova una grande iscrizione che così recita: “PROVIDENTIA OPTIMI PRINCIPIS CLEMENTIS XIII PONT MAX PUTEIS AD CONSERVATIONEM OLEI EFFOSSIS ANNONAM OLEARIAM CONSTITUIT ANNO MDCCLXIIII PONT VII”, ovvero “La preveggenza dell’Ottimo Principe Clemente XIII Pontefice Maximo eresse l’Annona Olearia nei pozzi scavati per la conservazione dell’olio nell’Anno 1764, Settimo (del suo) Pontificato”. Sotto l’iscrizione vi è una testa di leone con due rami di ulivo in bocca, sormontata da un imponente stemma di papa Clemente XIII Rezzonico. Nel 1764 infatti papa Clemente XIII autorizzò la costruzione di una riserva d’olio che, garantendo l’approvvigionamento per la città, calmierasse i prezzi del prodotto. I pozzi per lo stoccaggio dell’olio furono realizzati proprio nei sotterranei dei granai. Per la conservazione dell’olio era infatti necessario un luogo fresco e con temperatura costante ed i sotterranei gregoriani furono considerati ideali. I lavori per la realizzazione delle olearie papali furono affidati all’architetto Pietro Camporese il Vecchio, il quale fece abbattere antiche ed imponenti strutture delle Terme di Diocleziano e realizzare un gran numero di pilastri per sorreggere i granai superiori. Purtroppo non vi fu alcuna attenzione a preservare l’antico edificio termale: furono smantellati gli antichi sistemi di riscaldamento e lo stesso portale bugnato d’ingresso fu aperto nella muratura del calidarium. I pozzi realizzati furono dieci, posti su due file da cinque, all’interno di un ambiente composto da cinque corridoi con ampie volte a crociera su possenti pilastri. Le bocche delle cisterne, ognuna delle quali poteva contenere 44.000 litri, emergono dal pavimento rialzandosi da esso con una grande vera in travertino.
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La chiesa di S.Maria in Via (nella foto sopra), situata nell’omonima via, fu iniziata da Giacomo Della Porta nella seconda metà del Cinquecento ma fu portata a termine da Carlo Rainaldi nel 1681. L’origine del suo nome “in via” è alquanto incerto: alcuni ritengono possa derivare dalla sua vicinanza alla via Lata (l’odierna via del Corso), nodo cruciale della zona, altri dalla sua posizione in quanto, come ancora oggi è ben visibile, la chiesa era situata “in via”, ovvero “in mezzo alla strada”. La chiesa si presenta con un’alta facciata in travertino, distribuita su due ordini orizzontali: quello superiore presenta due vasi fiammeggianti e due snelle volute disposte ai lati del prospetto, al centro del quale si apre un finestrone balaustrato, affiancato da due colonne corinzie e sormontato da un timpano centinato con conchiglia; un timpano composto, formato dall’inserimento di un timpano curvilineo in uno triangolare, conclude la sommità della facciata. L’ordine inferiore presenta un alto portale timpanato e fiancheggiato da due colonne corinzie; ai lati sono poste due eleganti finestre anch’esse timpanate. Notevole il fregio con cui si conclude il primo ordine, impreziosito da angioletti e ghirlande vegetali, al centro del quale è situata una targa che così recita: “FRONS ERECTA A D MDXCVI RESTITUTA MDCCCC“, ovvero “Facciata eretta nell’anno del Signore 1596 (e) restaurata nel 1900”. Sopra il fregio, a separare i due ordini, corre invece la lunga iscrizione: “DEO IN HON(OREM) MARIAE VIRGINIS MATRIS DEI DD A MCCLVI”, ovvero “Dedicata a Dio in onore della Vergine Maria Madre di Dio nell’anno 1256”. Questo fu un anno molto significativo per la chiesa, anche se non fu quello di fondazione: le sue origini, infatti, sono più antiche, in quanto è già ricordata in una bolla papale di Agapito II nel 955, ma fu l’anno 1256 che conferì alla chiesa grande fama e notorietà. Dove oggi sorge la chiesa in passato vi erano le stalle del contiguo palazzo del cardinale Pietro Capocci, a sua volta adiacente alla chiesetta originaria. Si narra che, nella notte tra il 26 ed il 27 settembre 1256, un servo del cardinale, forse volontariamente, fece cadere nel pozzo situato nelle stalle un’immagine della Madonna dipinta su una tegola di terracotta. A quel punto accadde il fatto miracoloso: l’acqua iniziò a fuoriuscire dal pozzo ed in poco tempo allagò tutto l’ambiente. I cavalli, impauriti, iniziarono a nitrire ed a scalpitare, svegliando gli stallieri che si affrettarono a mettere in salvo le bestie. In mezzo a questo trambusto uno degli uomini si accorse che una pietra galleggiava sull’acqua e, avvicinandosi, si accorse che si trattava della stessa tegola con l’immagine della Madonna che era caduta nel pozzo. Il cardinale Capocci, informato dei fatti, accorse immediatamente nella stalla e, dopo una breve preghiera, raccolse la tegola con il dipinto e la fuoriuscita dell’acqua terminò. Il cardinale, dopo aver informato dei fatti papa Alessandro IV, decise di far erigere una cappella intorno al pozzo miracoloso, da consacrare alla Madonna, attigua alla chiesa già esistente. Sotto il pontificato di papa Innocenzo VIII, intorno al 1491, la chiesa fu riedificata ed affidata qualche anno dopo (1513) da papa Leone X Medici ai Padri Serviti di Maria. Grazie alla generosità di monsignor Giovanni Battista Canobi, primo segretario di Gregorio XIII e di Clemente VIII, nel 1592, sotto la direzione di Giacomo Della Porta e, subito dopo, di Francesco da Volterra, ebbe inizio la ricostruzione della facciata che, in antecedenza, era molto semplice.
Fu in occasione di questi lavori che la cappella ed il pozzo vennero inglobati all’interno della chiesa (nella foto 1), come dimostra la maggiore profondità di questa cappella rispetto alle altre. Interrotti i lavori per la morte del Canobi (1596), questi furono ripresi nel 1609 per iniziativa del cardinale Roberto Bellarmino e sotto la direzione di Carlo Lambardi. Tuttavia la facciata, come ora si presenta, fu completata nel 1681 da Carlo Rainaldi su commissione di monsignor Giorgio Bolognetti, congiunto del Canobi.
L’interno, a navata unica terminante con l’abside, presenta quattro cappelle per lato: la prima a destra è la Cappella della Madonna del Pozzo (nella foto 2), dove sono custoditi sia il pozzo che l’Immagine della Vergine, opera di pittore di scuola romana del XIII secolo, inserita all’interno di un tabernacolo seicentesco. L’evento miracoloso è tuttora ricordato con un rubinetto situato accanto al pozzo dal quale viene attinta l’acqua miracolosa che i fedeli bevono con fiduciosa devozione o portano a congiunti e conoscenti infermi. L’altare, restaurato nel XVIII secolo a spese del cardinale P.F. Bussi, titolare della chiesa, è formato da un paliotto in marmi policromi recante al centro una croce raggiata in ottone dorato ed alle due estremità due stemmi cardinalizi in mosaico. Al di sopra del paliotto due colonne con capitelli corinzi sorreggono due elementi di timpano triangolare spezzato; al centro di questi, un retablo con iscrizione tra due volute laterali sormontato da una lunetta. Sulla parete sinistra un ampio dipinto raffigura il cardinale Capocci attorniato dal suo seguito mentre recupera l’immagine della Beata Vergine emersa dalle acque del pozzo. Secondo una nota esistente nell’archivio del convento, il dipinto fu eseguito nel 1672 da un artista veneto per volontà del cardinale Carlo Carafa della Spina, che nel 1675 sarebbe divenuto titolare della chiesa. Sempre sulla parete sinistra è situato il monumento funebre a monsignor G.B. Canobi, fatto erigere nel 1681 dalla Confraternita del Ss.Sacramento che, dal 1576, data della sua fondazione, fino al 1724, data del suo trasferimento a piazza Poli, aveva sede in questa chiesa. Le altre cappelle sul lato destro sono: quella dedicata a S.Filippo Benizi, uno dei fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria, con la pala d’altare di Antonio Circignani, detto il Pomarancio, mentre gli altri dipinti sono di Tommaso Luini.
La terza è la Cappella Aldobrandini, dove possiamo ammirare la pala d’altare raffigurante “l’Annunciazione” e due tele, “Adorazione dei Magi” e “Natività”, opere del Cavalier D’Arpino (1596). Gli inserti della volta (nella foto 3, “Eterno Padre”, “Noli me tangere”, la “Trasfigurazione”, la “Pentecoste” e “l’Assunzione”) furono eseguiti dai fratelli fiorentini Jacopo e Francesco Zucchi tra il 1595 ed il 1596.
La quarta cappella fu progettata da Carlo Francesco Lambardi come cappella di famiglia ed è dedicata alla Santissima Trinità (nella foto 4). La pala d’altare raffigurante “La Santissima Trinità” è un’opera composta, con un crocifisso ligneo del XVI secolo attribuito ad uno scultore romano.
Nell’abside, sull’altare maggiore (nella foto 5), circondata da Angeli, è collocata la statua della “Vergine Addolorata”, molto venerata in tutte le chiese dell’Ordine dei Servi di Maria. Le Cappelle sul lato sinistro sono dedicate a S.Andrea Apostolo, al Sacro Cuore di Gesù, ai Sette Santi Fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria ed a S.Pellegrino Laziosi, del medesimo Ordine.