La chiesa di S.Pietro in Montorio (nella foto sopra) sorge sul luogo dove, secondo la tradizione, l’apostolo Pietro fu crocifisso sulla croce capovolta a testa in giù, sebbene la storia ritenga che il martirio di S.Pietro sia avvenuto nel Circo di Caligola e Nerone nell’ager Vaticanus (corrispondente all’attuale fianco sinistro della Basilica Vaticana). L’appellativo “Montorio” è corruzione di “Mons aureus” o “Monte d’oro”, per la marna gialla, anche detta “mica aurea“, che compone il colle Gianicolo sul quale la chiesa risiede. La chiesa fu fondata nel Medioevo per i monaci celestini (dell’Ordine di Celestino V), nel XII secolo passò ai Benedettini ed alla fine del Quattrocento fu affidata da papa Sisto IV ai frati Francescani. I frati, a seguito della definitiva acquisizione e conseguentemente al diffondersi della notizia che la chiesa contenesse la memoria del martirio di S.Pietro, provvidero a far abbattere il vecchio edificio per costruirne uno nuovo. La nuova chiesa fu eretta così inizialmente per munificenza del re di Francia Luigi XI e, successivamente, ad opera dei reali di Spagna Ferdinando V ed Isabella di Castiglia, per essere consacrata il 6 giugno 1500. Architetto della ricostruzione fu Baccio Pontelli. I bombardamenti avvenuti durante i combattimenti a difesa della Repubblica Romana nel 1849 danneggiarono seriamente la chiesa, distruggendo il quattrocentesco campanile (che fu poi interamente ricostruito), parte dell’abside ed il tetto. La chiesa presenta un’elegante facciata a timpano a due ordini con rosone gotico, preceduta da una doppia rampa di scale che conduce al bellissimo portale ligneo. L’interno, a navata unica terminante in un’abside poligonale, è scandito da tre campate: le prime due coperte da volte a crociera, corrispondenti a due cappelle semicircolari; la terza con volta a vela, fiancheggiata da due nicchioni che ripropongono l’andamento di un transetto. La chiesa conserva notevoli opere d’arte di Daniele da Volterra, di Giorgio Vasari, di Sebastiano del Piombo e di Gian Lorenzo Bernini. Sotto l’altare maggiore, non ricordata da alcuna lapide come avveniva per tutti i giustiziati, è sepolta Beatrice Cenci. Fino al settembre 1789, all’interno della chiesa era conservata, in una teca, la testa di Beatrice, decapitata in piazza di ponte S.Angelo l’11 settembre 1599: dopo 190 anni Jean Maccuse, soldato francese, profanò la teca e, dopo essersi divertito a prendere a calci la disgraziata testa di una delle donne più belle di Roma, andò via con il misero resto in tasca. Il francese, colpito da una terribile maledizione, da quel momento in poi non ebbe più pace: scherzo del destino, alla fine la sua testa andò ad ornare la teca di un sultano in Africa. Alla destra della chiesa, attraverso un cortiletto, si accede al chiostro formato da una serie di arcate murate (12 e 10 nei lati lunghi e 5 in quello corto) e da un portico di tre arcate rette da pilastri.
Al centro del chiostro si innalza il bellissimo Tempietto del Bramante (nella foto 1), sorto proprio sul luogo dove la leggenda vuole che sia stato crocifisso S.Pietro: difatti nella cripta sotterranea si può vedere il foro nel quale sarebbe stata piantata la croce del martirio. Il Bramante realizzò, tra il 1502 ed il 1509, quello che molti considerano il primo vero edificio rinascimentale di Roma su commissione di Ferdinando ed Isabella di Spagna, in adempimento, secondo la tradizione, di un voto fatto per ottenere un erede. La forma circolare del Tempietto riecheggia quella dei “martyria” cristiani, le cappelle dedicate al culto dei martiri: 16 colonne doriche sostengono la trabeazione con triglifi e metope, sormontata a sua volta da una balaustra. Al di sopra si innalza la cupola, impostata su un alto tamburo cilindrico, dove, separate da lesene, si alternano nicchie rettangolari ed a conchiglia. La calotta, rivestita in piombo e divisa in spicchi da costoloni, si conclude con una specie di lanternina cieca, dove al posto delle finestre si trovano vari emblemi. La cella del tempio presenta un corpo cilindrico, scavato da nicchie insolitamente profonde, decorate con conchiglie, e scandito da paraste come proiezione geometrica delle colonne del peristilio; l’interno ha un diametro di circa 4 metri e mezzo in quanto fu concepito come un luogo puramente simbolico e commemorativo più che uno spazio dedicato alle funzioni liturgiche. Sull’altare è collocata una statua di S.Pietro di anonimo lombardo. Il Tempietto fu restaurato nel secolo scorso, come ricorda una lapide commemorativa situata nel cortile del chiostro, all’inaugurazione del quale, il 25 maggio 1999, assistette il re di Spagna Juan Carlos. A fianco del chiostro è situato l’edificio dell’Accademia di Spagna di Belle Arti, risultante dalla trasformazione dell’antico convento francescano.
La piazza antistante la chiesa fu sistemata nel 1605 grazie agli aiuti economici del re Filippo III di Spagna, arricchita da una colonna sormontata dalla Croce (nella foto 2), qui posta nel 1657 con lo scopo di delimitare l’area del sagrato della chiesa. La colonna, dopo una temporanea sistemazione nell’Ottocento presso la Fontana Paola, fu risistemata nella posizione attuale nel 1941. La piazza era ornata anche da una fontana seicentesca detta “La Castigliana“, realizzata per volontà di Filippo III con gli emblemi del regno di Castiglia: distrutta dai cannoni francesi nel 1849, fu sostituita temporaneamente dalla cosiddetta Fontana del Trullo proveniente dalla piazza del Popolo, successivamente trasferita in piazza Nicosia, dove tuttora risiede.
La chiesa sorge in via del Quirinale, sull’area occupata dall’antica “S.Andrea de caballo” o “de equo marmoreo“, chiaro riferimento al gruppo marmoreo in piazza del Quirinale. Questa chiesa era già antica ed illustre nel 1400, poiché le sue origini risalgono all’XI secolo. Nel 1566 fu interamente rifatta a spese della duchessa di Tagliacozzo, quando l’area fu donata a S.Francesco Borgia. Accanto vi fu costruita la casa del noviziato per la Compagnia di Gesù. Nel XVII secolo il principe Camillo Pamphilj incaricò Gian Lorenzo Bernini di ricostruire la chiesa, che assunse, così, l’aspetto attuale soltanto nel 1662. Con questo edificio (1658-1671) Bernini ribaltò la concezione prevalente in fatto di architettura religiosa: la chiesa ha infatti una pianta ellittica, dove l’asse più lungo è quello orizzontale, mentre il più corto va dall’ingresso all’altare maggiore. La facciata, incassata in un proscenio ricurvo con un effetto di grande contrasto, è totalmente costituita da elementi dell’architettura classica (fregio con motivo greco consistente in un serrato alternarsi di forme ovali e piccoli parallelepipedi, colonne corinzie, triangoli e semicerchi romani), ma tutti sottoposti ad una compressione laterale che ne esalta la verticalità. Un’elegante scalinata curvilinea conduce al protiro (nella foto sotto il titolo), sorretto da due colonne ed ornato dal grande stemma cardinalizio del principe Camillo Pamphilj, committente dell’opera; due alte lesene sorreggono invece il grande timpano modanato. L’interno, da molti definito “la perla del Barocco”, è un gioco di luci e ombre che prelude al Rococò.
Splendida la cappella maggiore (nella foto 1) con altare in bronzo dorato e lapislazzuli, disegnata dallo stesso Bernini ed ornata da una bellissima raggiera dorata con angeli e cherubini di Antonio Raggi; al centro si trova una tela con la raffigurazione del “Martirio di S.Andrea”, opera del Borgognone. Verso l’alta cupola si slancia un gruppo scultoreo con un “S.Andrea Crocifisso” che sovrasta l’altare, volgendo lo sguardo all’immagine di se stesso nell’atto di ascendere in cielo.
La struttura originaria di questa chiesa risale ad una piccola cappella dedicata alla “Ss.Trinità ed a S.Carlo Borromeo” e costruita dai Trinitari Spagnoli su un terreno acquistato nel 1611 dalla famiglia Mattei. Soltanto alcuni anni dopo, nel 1635, dopo l’acquisto di alcune proprietà limitrofe, i Trinitari commissionarono a Francesco Borromini la costruzione di una nuova chiesa e di un convento. Per quanto vincolato dallo spazio ristretto che aveva a disposizione, il grande architetto riuscì ugualmente a creare un complesso funzionale, fornito di tutti gli ambienti richiesti dai religiosi. La costruzione della chiesa richiese molto tempo, tanto che fu completata dal nipote del Borromini nel 1667, lo stesso anno, cioè, in cui il grande artista si suicidò: per questo motivo la piccola cappella posta nella cripta, che venne a lui riservata, rimase vuota perché i Trinitari non accettarono di ospitarvi un suicida e così il Borromini venne sepolto nella chiesa di S.Giovanni dei Fiorentini. S.Carlo alle Quattro Fontane (nella foto in alto), dedicata alla “Ss.Trinità ed a Carlo Borromeo”, il cardinale milanese del XVI secolo canonizzato nel 1620, presenta una facciata alta e stretta, con un movimento di linee e curve assai caro al Borromini. Situata in via del Quirinale, ad angolo con via delle Quattro Fontane (donde il nome), la chiesa è detta popolarmente S.Carlino per le sue ridotte dimensioni, tanto che si dice che sia grande quanto un pilastro della cupola di S.Pietro. La facciata, a due ordini, presenta quattro grandi colonne ioniche che sorreggono gli aggetti e le rientranze dei cornicioni e la grande trabeazione con l’iscrizione dedicatoria: IN HONOREM SS TRINITATIS ET D(IVI) CAROLI MDCLXVII, ovvero “In onore della Ss.Trinità e di S.Carlo 1667″.
L’ordine inferiore (nella foto 1) presenta un portale d’ingresso sovrastato da tre nicchie contenenti le statue di S.Giovanni De Matha (alla destra del portone), fondatore dell’Ordine dei Trinitari, di S.Felice di Valois (posto sulla sinistra), mentre al centro, incorniciata dalle ali di due angeli, si trova la statua tardo-seicentesca di S.Carlo Borromeo, opera di Antonio Raggi.
L’ordine superiore (nella foto 2) è costituito da un balconcino sul quale si affaccia un’edicola con cupolino, oltre la quale due angeli reggono una grande cornice ovale nella quale un tempo vi era l’affresco della Trinità. La cupola, a pianta ellittica e con ampi finestroni, sorregge una lanterna. Accanto alla facciata svetta il piccolo campanile del Borromini, poggiante su coppie di colonne e dalla cuspide a pagoda.
Accanto alla chiesa è situato il convento (nella foto 3), con un portale d’ingresso caratterizzato da un serafino di marmo posto tra il timpano e l’architrave, dove è anche inserito il seicentesco mosaico di Fabio Cristofari raffigurante “Cristo tra due schiavi liberati“. Sopra il portale è posto un finestrone sormontato a sua volta dal grande emblema dei Trinitari, nel quale campeggia la croce rossa e blu, sorretto da due angeli. Ai lati si susseguono tre finestre cieche rettangolari raccordate da un oblò centrale.
Da questo ingresso si può accedere al chiostro (nella foto 4, raggiungibile anche dalla chiesa), altro capolavoro del Borromini: a pianta ottagonale allungata, presenta l’ordine inferiore costituito da colonne doriche binate collegate da una cornice continua, motivo che si ripropone anche nell’ordine superiore ma con colonne più esili; al centro del cortile è situato un pozzo ottagonale.
PERCHE’ MARIA DI MAGDALA NON RICONOSCE GESU’?
COSA HA DETTO L’ANGELO ALLE DONNE?
COS’ E’ LA RISURREZIONE DI GESU’?
A QUANTE PERSONE APPARVE CONTEMPORANEAMENTE GESU’?
La Basilica di S.Pietro in Vincoli deve il suo nome alle catene (dal latino vincula, catene) qui conservate e che, secondo la tradizione, furono utilizzate per legare S.Pietro durante la sua prigionia a Gerusalemme e nel Carcere Mamertino. Nel V secolo d.C. l’imperatrice Elia Eudocia, moglie dell’imperatore d’Oriente Teodosio II, ebbe in dono dal Patriarca di Gerusalemme, Giovenale, le catene con le quali, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, S.Pietro era stato imprigionato a Gerusalemme. L’imperatrice inviò le catene alla figlia, Licinia Eudossia, moglie dell’imperatore d’Occidente Valentiniano III, la quale volle donarle personalmente a papa Leone I, detto anche Leone Magno. La Chiesa era già in possesso delle catene utilizzate per la prigionia di S.Pietro nel Carcere Mamertino, cosicché, quando il pontefice accostò le due catene, queste si fusero miracolosamente per divenirne una soltanto.
A ricordo e celebrazione perpetua del miracolo, nel 442 d.C. fu edificata la basilica di S.Pietro in Vincoli, anche grazie all’aiuto dell’imperatrice Licinia Eudossia (per cui la chiesa è conosciuta anche come Basilica Eudossiana) e qui furono custodite le catene, tuttora visibili sotto l’altare (nella foto 1). La chiesa fu ricostruita al posto di una preesistente denominata “Ecclesia Apostolorum” (ovvero “Chiesa degli Apostoli”) che andò distrutta per cause ignote. Negli anni 1956-1960, sotto la direzione di Antonio Maria Colini, il pavimento della navata centrale fu smantellato al fine di effettuare scavi archeologici che riportarono alla luce tutte le fasi precedenti al V secolo. Fu così che vennero rinvenuti una serie di edifici sovrapposti, appartenenti a “domus” aristocratiche di età repubblicana ed imperiale. Le strutture più superficiali furono in gran parte tagliate ed utilizzate come fondazioni per la realizzazione della chiesa. Gli strati più profondi restituirono resti di abitazioni medio-repubblicane (IV-III secolo a.C.), sopra le quali furono rinvenute due case della fine del II secolo a.C. con splendidi mosaici policromi figurati. Il livello più superficiale, fortemente danneggiato dalle sepolture e dai rifacimenti del pavimento della chiesa, restituì invece una grande domus databile inizialmente al periodo neroniano, della quale sono visibili tre bracci di un criptoportico che chiudeva un cortile rettangolare con una vasca centrale e giardini, probabilmente appartenente alla Domus Transitoria o alla Domus Aurea. Nel III secolo il cortile con giardino fu chiuso per ampliare la sala maggiore dell’edificio che acquistò così un ambiente quadrato con trifore sui tre lati liberi.
Successivamente a questo ambiente fu innestata un’abside, realizzando in tal modo una grande aula absidata di metri 34×10, per la quale non si può escludere una funzione cultuale, probabilmente una domus ecclesiae: il primo edificio ecclesiastico fu realizzato sfruttando proprio tali strutture. La basilica eudossiana del V secolo venne più volte restaurata, da papa Adriano nel 790 circa, da Sisto IV e da Giulio II: di questi ultimi due, rispettivamente zio e nipote, possiamo notare il simbolo araldico della famiglia della Rovere sui capitelli che ornano le quattrocentesche colonne del portico, opera di Meo del Caprino, che costituisce l’ingresso della basilica (nella foto in alto sotto il titolo). L’interno è a tre navate absidate, divise da colonne a capitello dorico: la navata centrale presenta il soffitto a cassettoni ornato dall’affresco con il miracolo delle catene. La navata destra conserva, al primo altare, la tela di “S.Agostino” del Guercino, mentre al secondo altare vi sono due ritratti attribuiti al Domenichino. La sacrestia custodisce un pavimento ad intarsi marmorei che si ritiene proveniente dalle Terme di Traiano, ma senza alcun dubbio il monumento per cui la chiesa è famosa in tutto il mondo è il famosissimo “Mosè” di Michelangelo (nella foto 2), destinato ad ornare il monumento funebre di Giulio II nella basilica di S.Pietro in Vaticano. Quando la tomba gli fu commissionata, nel 1505, Michelangelo trascorse otto mesi a Carrara alla ricerca di blocchi di marmo perfetti, ma, al suo ritorno, il papa aveva spostato il suo interesse alla volta della Cappella Sistina, a cui Michelangelo lavorò tra il 1508 ed il 1512, e quindi il progetto venne accantonato. Dopo la morte di Giulio II, nel 1513, e l’elezione di Leone X, il progetto fu ridimensionato e trasferito per la sua esecuzione nella chiesa di S.Pietro in Vincoli. Quando Michelangelo riprese il lavoro alla tomba, completò solo il “Mosè” ed i “Prigioni” prima che Clemente VII e Paolo III lo convinsero a lavorare al “Giudizio Universale” nella Cappella Sistina in Vaticano.
Il Mausoleo di Giulio II fu così terminato dagli allievi del Maestro e consiste in una semplice facciata con sei nicchie per le statue (nella foto 3), ben poca cosa rispetto all’originario progetto dell’artista che avrebbe voluto realizzare una tomba con 40 statue. I “Prigioni”, un gruppo di sei statue di figure incatenate in varie pose come prigionieri, oggi sono nella Galleria dell’Accademia a Firenze (i quattro non-finiti) ed al Museo del Louvre a Parigi (i due quasi-finiti). Fortunatamente però la bellissima scultura marmorea raffigurante “Mosè” è tuttora conservata in questa chiesa. Le curiose corna che adornano la testa della statua dovrebbero essere i raggi della Divina Sapienza, ma in seguito ad un’errata traduzione dal testo ebraico del Vecchio Testamento si sono tramutati in corna. Mosè, con lo sguardo accigliato e fiero, siede solennemente con le Tavole della Legge in mano. Su un ginocchio si potrà notare una lieve linea di frattura legata ad una famosissima leggenda secondo la quale Michelangelo avrebbe colpito la statua in quel punto con il mazzuolo gridandogli: “Perché non parli?“. Ai lati del Mosè vi sono le statue ritenute di Lia e Rachele, simboli della vita attiva e contemplativa, che Michelangelo fece completare da Raffaello di Montelupo. Sopra il Mosè vi è la statua giacente di Giulio II, a lungo attribuita a Maso del Bosco, anche se ultimamente, dopo i restauri del 2000, si ritiene possa essere opera dello stesso Michelangelo. Le restanti figure in alto sono, a sinistra, una Sibilla ed a destra un Profeta, anch’esse opera di Raffaello di Montelupo, mentre la scultura raffigurante una Madonna in piedi con il Bambino, quasi a vegliare sul corpo del pontefice defunto, fu realizzata da Scherano da Settignano.
La navata sinistra conserva il monumento funebre di Mariano Vecchiarelli, raffigurato, con il gusto macabro tipico del barocco, tra due scheletri. Importante un’icona a mosaico del VII secolo dove S.Sebastiano, vestito da soldato, è raffigurato vecchio e barbato, secondo l’iconografia originale bizantina, diversa da quella successiva romana che lo trasformò invece in un bellissimo giovane. Segue l’altare con la “Deposizione dalla Croce” attribuita al Pomarancio e, alla fine della navata, il monumento funebre del cardinale Nicola Cusano (nella foto 4, opera di Andrea Bregno), dal 1448 al 1464 cardinale titolare della chiesa di S.Pietro in Vincoli. Cusano deriva dalla sua città di origine Cusa (Kues, ora Bernkastel-Kues, in Germania), ma il suo vero nome era Nikolaus Krebbs (da krebs, che in tedesco significa aragosta, da cui lo stemma cardinalizio che vediamo nella parte inferiore del monumento). Accanto alla chiesa si trovava il convento iniziato verso la metà del Quattrocento proprio per volere di Nicola Cusano. I lavori proseguirono con il cardinale Francesco della Rovere, futuro papa Sisto IV e nel 1489 fu affidato ai Canonici Regolari del Ss.Salvatore. All’altro pontefice della famiglia della Rovere, Giulio II, si devono gli ulteriori interventi che videro la definitiva sistemazione del convento e l’erezione del chiostro, attribuito tradizionalmente a Giuliano da Sangallo.
Dopo il 1870, con il pericolo incombente di vedersi confiscare il convento, secondo la nuova legislazione dello Stato Italiano, i Canonici Regolari escogitarono una finta vendita con la condiscendente famiglia milanese dei Vimercati. Scoperto l’inganno, però, le autorità competenti espropriarono l’intero convento ed obbligarono i Vimercati a lasciare la città. Il complesso divenne quindi proprietà dello Stato, che destinò la parte destra a Regia Scuola di Ingegneria ed affittò l’altra ala agli stessi Canonici: oggi è sede della Facoltà di Ingegneria Civile e Industriale. Il chiostro (nella foto 5) è situato all’interno della Facoltà: sui suoi lati, liberati dalle vetrate che un tempo li chiudevano per ospitare alcune aule, sono tornate a correre le arcate. Queste (otto nei lati lunghi e sette nei corti) sono sorrette da colonne con capitelli ionici che mostrano lo stemma della Rovere. Sotto i suoi portici non si aprono più i vari ambienti necessari alla vita monastica ma gli attrezzati istituti della facoltà.
A testimoniare l’originaria funzione è rimasto il caratteristico pozzo (nella foto 6, simbolo della Facoltà di Ingegneria), ancora al suo posto nel centro del cortile, inquadrato in un’edicola impostata su colonne binate ioniche che sostengono la trabeazione ed il timpano. Anche qui troviamo i riferimenti roveriani: il nome del cardinale Sisto, sotto il quale fu iniziato, e lo stemma sono posti sul timpano, mentre l’iscrizione sulla trabeazione ricorda il cardinale Leonardo con il quale fu terminato, probabilmente nel 1517. Il progetto è attribuito ad Antonio da Sangallo, che lo realizzò con la collaborazione di Simone Mosca.
Il cortile ospita anche una piccola fontana (nella foto 7) costruita nel 1642, costituita da una vasca ottagonale a fior di terra, al centro della quale si erge una colonnina che sostiene il catino di forma circolare nel cui centro si eleva, da un piccolo petalo, un piccolo zampillo d’acqua. Le api presenti ai bordi della fontana non lasciano dubbi circa la famiglia che commissionò il lavoro, in quanto simbolo araldico dei Barberini. Infatti una lunga iscrizione inserita in una cornice molto elaborata, situata sotto i portici del chiostro, così recita: “DISCE HOSPES AQUAE HUIUS PERENNITATEM E SCATEBRA INEXAUSTA EA EST ANTONII CARDINALIS BARBERINI LIBERALITAS DISCE SUAVITATEM EAM APES PROFUNDUNT SAPOR IN AQUIS CAETERIS VITIUM IN HAC MEL ET NECTAR EST NULLA MELIOR INFLUAT IN HORTOS AQUA DUM APES PROPINANT MELLEAM FLORES USURAM BIBUNT – D THOMAS MENTIUS ABBAS GENERALIS GRATIAE REFERENDAE SITIENS A D MDCXLII”, ovvero “Sappiate stranieri che quest’acqua perenne che proviene da una fonte inesauribile è un dono del cardinale Antonio Barberini. Sappiate che tale dolcezza proviene dalle api che tolgono il sapore delle scorie nelle acque rimanenti e riversano in esso miele e nettare. Non c’è acqua migliore che si riversi nei giardini, finché le api offrono i fiori bevono il dolce beneficio. D.Thomas Menti Abate Generale Gratia Referenda Anno Domini 1642”.
1. COSA E’ IL SINEDRIO?
2.COSA PENSANO ERODE E PILATO DELLA CONDANNA DI GESU’?
La chiesa prende il nome dalla S.Prassede, sorella di S.Pudenziana e figlia del senatore romano Pudente, discepolo di S.Paolo. Un’antica leggenda narra che Prassede e Pudenziana sarebbero state uccise perché dedite a dare sepoltura ai martiri delle persecuzioni di Antonino Pio nei pozzi situati nel vasto terreno di proprietà del padre. La chiesa, fondata nel IX secolo da papa Pasquale I sull’antico “titulus Praxaedis” della fine del V secolo, subì vari restauri nei secoli XV, XVII e XIX, che ne alterarono alquanto il primitivo carattere. Tuttavia l’edificio conserva ancora la struttura medioevale nel protiro di accesso situato lungo via di S.Martino ai Monti, che immette, dopo una lunga scala, in un cortile nel quale si erge la semplice facciata in mattoni della chiesa (nella foto in alto), secondo il disegno originale voluto da Pasquale I. Il cortile conserva i resti di un colonnato con capitelli corinzi appartenuto probabilmente alla basilica del V secolo. L’accesso alla chiesa avviene anche attraverso un ingresso laterale su via di S.Prassede.
L’interno era costituito da tre navate divise originariamente da 12 colonne di granito a trabeazione rettilinea; quindi sei di queste furono ridotte a pilastri, ai quali si appoggiano archi trasversali nelle navate minori. Nel centro del rifatto pavimento cosmatesco un disco di porfido (nella foto 1) ricopre il pozzo nel quale la santa raccolse i resti ed il sangue dei martiri: si parla di diverse migliaia e proprio per questo la chiesa è una delle più venerate di Roma. Artisti bizantini decorarono la chiesa di mosaici dorati: quelli nell’abside e nel coro raffigurano gli antenati in vesti bianche, gli eletti che guardano giù dall’alto dei cieli, agnelli dalle zampe sottili, palme dal bel ciuffo piumato e vivaci papaveri rossi. Nell’abside S.Prassede e S.Pudenziana stanno ai lati di Cristo, circondate dal paterno abbraccio di S.Paolo e S.Pietro. Nella cripta, all’interno di due sarcofagi strigilati, sono contenute le reliquie delle due Sante. A metà della navata destra si trova la Cappella di S.Zenone, uno dei più importanti monumenti bizantini in Roma, eretta da Pasquale I come mausoleo della madre Teodora. Le due colonne di granito nero e la ricca cornice curva sostengono un’urna cineraria con i resti di Zenone, sacerdote e martire; l’interno della Cappella, a volta, con colonne angolari, è interamente ricoperto da mosaici e così splendente da essere stato chiamato “il Giardino del Paradiso”. I mosaici rappresentano le figure del Cristo, della Madonna, di S.Prassede e dell’episcopa Teodora con il nimbo quadrato dei viventi.
Nella nicchia sopra l’altare vi è la raffigurazione, a mosaico, della “Madonna con il Bambino” (nella foto 2). Il pavimento è un antichissimo esempio di “opus sectile” a marmi policromi. In una nicchia a destra dell’ingresso è custodita una colonna portata a Roma da Gerusalemme dal cardinale Giovanni Colonna nel 1223: la tradizione vuole che sia un frammento della colonna alla quale fu legato Gesù per essere flagellato. La “Colonna della Flagellazione” (nella foto 3) è custodita in un reliquario di bronzo dorato e risulta variamente intagliata a causa dei piccoli frammenti utilizzati come reliquia nei tempi passati; alta cm 63 per un diametro di cm 40 alla base, di cm 20 alla sommità e di cm 13 nel punto più stretto, ha una forma conica che si restringe a tre quarti per poi riallargarsi verso l’alto.
Altre tradizioni legate a questa chiesa ci dicono che la lunga tavola di marmo posta a sinistra della navata serviva da letto alla santa che vi dormiva per penitenza, mentre l’urna posta sotto l’architrave d’ingresso racchiuda le ossa di S.Valentino, protettore degli innamorati. Notevoli anche le sepolture, fra le quali quella di mons. Santoni, il cui busto dicesi opera prima del Bernini, che lo avrebbe scolpito a soli dieci anni. Due belle gradinate di rosso antico portano all’altare maggiore, gradinate che colpirono il gusto degli emissari di Napoleone, che ordinò di rimuoverle e trasportarle a Parigi per divenire i gradini del suo trono imperiale: evidentemente, e per fortuna, il progetto andò in fumo. Bellissimo anche il campanile che sorge all’estremità meridionale del braccio sinistro del transetto della chiesa: la sua costruzione si colloca tra la fine dell’XI secolo ed i primi decenni del secolo successivo. Di forma rettangolare, la torre campanaria si innalza con un solo piano scandito da una coppia di bifore poggianti su colonnine marmoree e capitelli a stampella: all’interno funzionano due campane del 1621.
1.COSA SIGNIFICA GETSEMANI?
2.DOVE SI TROVA IL GETSEMANI?
3.PERCHE’ GESU’ SUDA SANGUE?
4.COSA SIGNIFICANO LE PAROLE DI GESU’:”ALLONTANA DA ME QUESTO CALICE”?
S.Stefano Rotondo, una delle più antiche chiese cristiane, fu eretta ai tempi di papa Simplicio, tra il 468 ed il 483. La basilica, costruita con materiali di spoglio, originariamente aveva già una pianta circolare ma era suddivisa in tre navate concentriche, come possiamo osservare nella pianta 1: la prima navata (“Aula”) era sorretta da 22 colonne ioniche architravate, la seconda (“Ambulacro”), ad anello, con 44 archi poggianti su 36 colonne e su otto pilastri a forma di T, dai quali si dipartivano i muri che dividevano il terzo anello, confinante con il muro perimetrale, in otto settori.
Di essi, quelli disposti sugli assi ortogonali (corrispondenti all’Atrio) prevalevano in altezza, così da configurare, nella disposizione degli spazi, uno schema cruciforme. I settori collocati lungo gli assi diagonali erano a loro volta suddivisi in due ambienti paralleli, due terzi verso l’interno, aperti (“Cortile all’aperto”), un terzo verso il muro esterno, coperto (“Cortile coperto”). L’accesso era assicurato da otto porte (“Ingressi”), che immettevano nei “Cortili coperti”, dai quali si poteva accedere agli “Atrii”, messi in comunicazione con i cortili da una trifora su due colonne. La mole centrale era alta 22 metri, così come 22 erano il diametro e le finestre che vi si aprivano.
L’anello centrale era sorretto da 22 colonne di spoglio (nella foto 2), perciò non tutte uguali tra loro, soprattutto in altezza: la più alta misura circa 6 metri, la più bassa 5,65 e questo è il motivo per cui, per ovviare a tale inconveniente, si possono osservare basi di differente altezza. I capitelli invece furono eseguiti e scolpiti durante la costruzione, mentre nello spazio centrale vi fu posto un altare, inserito all’interno di un’area recintata. Tra il 523 ed il 529 l’interno di S.Stefano Rotondo fu sontuosamente ornato con mosaici e lastre marmoree intarsiate in porfido, serpentino e madreperla; al centro fu inserita una tribuna per la “schola cantorum” e per la cattedra, la cosiddetta “Sedia di Gregorio Magno”, un antico sedile marmoreo di epoca romana dal quale si narra che il pontefice pronunciasse le sue omelie ed al quale, nel XII secolo, furono tolti la spalliera ed i braccioli (oggi il sedile è collocato a sinistra dell’ingresso). Il primo intervento al quale l’edificio fu soggetto si deve a Teodoro I, il quale, tra il 642 ed il 649, vi fece trasportare i corpi dei santi Primo e Feliciano da un cimitero situato presso Mentana: nell’occasione fu aperta, nel muro perimetrale, una cappella a volta sferica, sulla quale un mosaico bizantineggiante, tuttora visibile, raffigura i santi ai lati di una croce gemmata. Altri lavori furono effettuati durante il pontificato di Adriano I nell’VIII secolo, in particolare volti a riparare i danni dei tetti. Nel IX secolo iniziarono però le spoliazioni, alle quali si aggiunsero, nell’847, i danni causati da un terremoto e nel 1084 quelli causati da Roberto il Guiscardo. Quando nel 1130 papa Innocenzo II salì al soglio pontificio, la basilica si trovava in uno stato pietoso, con il tamburo scoperchiato, gli stucchi in rovina, i marmi asportati, il muro perimetrale in più parti danneggiato: fu così che il pontefice fece chiudere, a filo delle colonne, tutte le arcate del secondo anello (“Ambulacro”), tranne le cinque corrispondenti alla cappella dei santi Primo e Feliciano e le due d’ingresso.
Il pontefice volle aggiungere il portico esterno a cinque archi con colonne tuscaniche antiche che costituiscono l’ingresso della chiesa (nella foto 3). All’interno, invece, per sostenere il tetto, fece erigere un diaframma che scavalca l’ambiente centrale con tre archi sostenuti da colonne in granito rossastro, di spoglio come i capitelli, alte metri 8,45; a questo periodo risale anche il bellissimo soffitto a cassettoni. Nel XIV secolo, però, il complesso era di nuovo pericolante e così nel 1453 papa Niccolò V incaricò l’architetto e scultore fiorentino Bernardo Rossellino di restaurare tutto il complesso: questi rifece le coperture ed il pavimento, rialzandone il livello, collocò al centro dell’edificio un altare marmoreo, eliminò definitivamente il cadente ambulacro esterno e chiuse le 22 finestre del tamburo, sostituendole con le attuali otto bifore (nella foto sotto il titolo). Pochi anni dopo, nel 1462, la basilica venne affidata ai monaci ungheresi di S.Paolo Eremita, i quali si adoperarono per annettervi anche un convento, più volte restaurato negli anni seguenti. Alla fine del 1500 papa Gregorio XIII consegnò il complesso, ancora una volta lasciato all’incuria, al Collegio Germanico-Ungarico. Il rettore, padre Lauretano, nel 1580 fece costruire al centro dell’aula un recinto ottagonale a stucco (visibile nella foto 2), decorato da Antonio Tempesta con le “Storie di S.Stefano”, la “Strage degli Innocenti” e la “Madonna dei Sette Dolori”. Inoltre nel 1582 le pareti della chiesa che chiudevano l’ambulacro vennero affrescate da Nicola Circignani detto il Pomarancio, con la collaborazione di Matteo da Siena per le prospettive, con 34 scene raccapriccianti del martirio di innumerevoli santi.
Le scene crude rappresentate in questi affreschi avevano lo scopo di avvertire i giovani sacerdoti che sarebbero andati in paesi lontani per convertire la popolazione al cristianesimo sui pericoli che avrebbero potuto incontrare: nella foto 4 il “Martirio di S.Margherita”. Nella piccola abside della cappella dedicata ai santi Primo e Feliciano si trova il bellissimo mosaico del VII secolo (nella foto 5) raffigurante “Cristo con S.Primo e S.Feliciano”: sul fondo d’oro sono rappresentati i due Santi vestiti con mantelli da viaggio che poggiano su un praticello verde e numerosi fiori.
Al centro campeggia una grande croce minuziosamente decorata ed ornata di fiorellini e pietre preziose con sopra Cristo beneficente, anziché crocifisso, riprendendo un’iconografia inconsueta e molto antica. Durante i lavori di restauro iniziati dalla metà degli anni Novanta nei sotterranei della chiesa vennero alla luce i resti dei “Castra Peregrinorum“, ovvero la caserma delle truppe provinciali distaccate a Roma, sulla quale era sorta la basilica, ed un mitreo (molto probabilmente legato proprio ai “Castra Peregrinorum“) risalente al 180 d.C., costituito da un ambiente rettangolare con due podi, sui quali prendevano posto i seguaci, ed un’edicola a nicchia del II secolo d.C. con la raffigurazione a rilievo in stucco dorato della “tauroctonia” (uccisione del toro) da parte del Dio.
Sulle pareti, oltre ad alcuni dipinti appartenenti al santuario del II secolo, c’è un affresco raffigurante la “Personificazione della Luna” (nella foto 6). Il mitreo fu abbandonato repentinamente, probabilmente a seguito di una devastazione violenta dello stesso, destino purtroppo comune ad altri edifici adibiti allo stesso culto. E’ difficile dare una datazione certa a questo evento, che probabilmente ebbe luogo intorno alla fine del IV secolo. Gli ambienti furono successivamente oggetto di un poderoso riempimento con materiale di risulta, propedeutico ai lavori di costruzione della chiesa, che nascose così per circa 1500 anni questa importante testimonianza del passato. La chiesa è situata nell’omonima via di S.Stefano Rotondo, corrispondente al primo tratto dell’antica “via Caelimontana“, che usciva dalla “porta Caelimontana” e si spingeva fino a Porta Maggiore, proseguendo per le attuali piazza S.Giovanni in Laterano e via Domenico Fontana. Questo asse viario era seguito anche dai quattro acquedotti che percorrevano il Celio: “Appia“, “Marcia“, “Iulia” e “Claudia“.
Il nome di questo convento deriva dai quattro soldati martirizzati (“coronati” cioè dal lauro del martirio) Severo, Severiano, Carpoforo e Vittorino, rei di non aver voluto giustiziare quattro o cinque scultori che si erano rifiutati di scolpire la statua di un idolo pagano, affermando così la loro fede cristiana. La chiesa oggi ha l’aspetto di un fortilizio, di una rocca medioevale, circondata da imponenti mura e sormontata da una torre. Il nucleo originario fu costruito nel IV secolo da papa Melchiade con il nome di “titulus Aemilianae” o “titulus Ss.Quattuor Coronatorum“, del quale sopravvive ancora l’abside (nella foto 1) ed alcuni resti situati al di sotto dell’attuale basilica; nel VII secolo papa Onorio I ricostruì ed ampliò la chiesa che poi nel IX secolo Leone IV sottopose a radicale restauro. Distrutta dai Normanni di Roberto il Guiscardo nel 1084, la chiesa fu ricostruita in forme ridotte da Pasquale II all’inizio del XII secolo: in questa occasione la parte anteriore fu trasformata in cortile, la navata centrale originaria divisa in tre navate tramite due file di colonne e le navate laterali trasformate in chiostro l’una ed in refettorio l’altra.
Nel 1116 il complesso fu affidato ad una congregazione monastica, nel 1138 divenne amministrazione dei Benedettini dell’abbazia di Sassovivo di Foligno che lo mantennero fino al Quattrocento. Quindi con Martino V divenne dimora episcopale; nel 1521 passò ai Camaldolesi e nel 1560 alle suore Agostiniane, che ancora ne mantengono la cura. Pio IV (1559-65) la restaurò di nuovo, concedendo il monastero annesso alle povere orfane trasferitesi qui dall’Isola Tiberina: fu questo il più antico dei conservatori per zitelle che sorgesse a Roma. Per secoli fu il bastione del Palazzo del Laterano e residenza papale: nel 1265 vi dimorò anche Carlo d’Angiò. Tra il 1912 ed il 1914 importanti lavori di restauro furono effettuati dall’Ispettore Superiore per l’Archeologia e le Belle Arti Antonio Muñoz, volti a valorizzare le strutture paleocristiane ed i resti della navata carolingia, isolando la cripta e ponendo alla luce le mura romaniche.
L’ingresso alla chiesa avviene attraverso un portale ad arco sovrastato dalla massiccia torre campanaria del IX secolo (nella foto 2), la più antica superstite di Roma: molto semplice e tozza, è costruita in cortina e presenta un loggiato con quadrifore sovrastato da una semplice cornice costituita da mensolette in marmo prive di decorazione. Oltrepassato il portale si accede ad un primo cortile, con arcate tardo-cinquecentesche, corrispondente all’antico atrio di ingresso della basilica leonina: sopra l’arco notare un’iscrizione metrica in caratteri gotici (nella foto 3) relativa al restauro effettuato dal cardinale Carillo nel XV secolo.
Attraverso un architrave si passa in un altro cortile a cielo aperto, corrispondente alla parte anteriore dell’antica basilica, trasformata appunto in cortile nella ricostruzione di Pasquale II: da qui, attraverso un portico costituito da colonne con capitelli ionici e corinzi, si giunge all’ingresso della chiesa. L’interno basilicale a tre navate si presenta con un pavimento cosmatesco ed un soffitto ligneo con lo stemma del donatore, il card. Enrico di Portogallo (1580). Dalla navata di sinistra si accede al bellissimo chiostro (nella foto 4) costruito intorno al 1220, nell’area precedentemente occupata dalla navata sinistra della chiesa antica. A pianta rettangolare, presenta reperti paleocristiani e romani alle pareti e quattro gallerie divise in due campate da pilastrini sui quali sono scolpite paraste scanalate e rudentate. Le campate sono formate da una serie di otto archetti nei lati lunghi e di sei nei corti.
Tutti gli archetti hanno la doppia ghiera e sono sostenuti da colonnine binate, con capitelli a nenufari e basi con foglie protezionali d’angolo, che poggiano sullo stilobate. La parte medioevale termina con una trabeazione in laterizio, composta da corsi di mattoni lisci ed a denti di sega alternati, intramezzati da una zona di marmo dove compare una decorazione a mosaico, formata da rombi che inscrivono stelle, croci e quadrati. Il cortile interno, tenuto a giardino, presenta al centro un “cantharus“, ovvero un vaso per le abluzioni, del tempo di Pasquale II. La fontana (nella foto 4) è costituita da una doppia tazza ricavata da un unico blocco di marmo: un piccolo zampillo sgorga dalla vaschetta superiore e si raccoglie in quella inferiore, quadrilobata, caratterizzata da una coppia di teste leonine da cui sgorga l’acqua che va a versarsi nella sottostante vasca di forma quadrata ad angoli rientranti. La fontana ornava l’atrio della chiesa già nel IX secolo: fu rinvenuta per caso, quasi completamente interrata, nel corso dei lavori di restauro eseguiti nel 1917 da Antonio Muñoz, il quale la collocò nella posizione attuale. Nella loggia superiore (anch’essa ben visibile nella foto 4), costruita nel XVI secolo, si aprono finestre moderne: fu in questa occasione che, per sopportare il peso del piano superiore, furono apportate modifiche al pianterreno, come il tetto ligneo sostituito con volte in muratura, alcuni archetti sostituiti da grandi archi di scarico e nuovi pilastri in muratura che si aggiunsero a quelli di marmo già esistenti.
Nella Cappella di Santa Barbara, tri-absidata e coperta a volta, vi sono notevoli resti di affreschi del secolo IX e XIII: nella foto 5 una “Madonna con Bambino”, opera di allievi del Giotto. Degna di attenzione è anche la Cappella di S.Silvestro, costruita nel 1246, di forma rettangolare con volta a botte e pavimento di tipo cosmatesco, con affreschi che narrano la leggenda della conversione di Costantino da parte di Silvestro I, papa dal 314 al 335: all’imperatore, colpito dalla peste, venne prescritto un bagno nel sangue di bambini sacrificati allo scopo, ma Costantino, respinta una terapia così terribile, si rivolse a Silvestro dopo una visione degli apostoli Pietro e Paolo. Il papa lo curò e lo battezzò e l’imperatore, nella scena finale, è raffigurato in ginocchio davanti al papa, implicito riferimento del papato quale erede dell’Impero Romano. La chiesa conserva le spoglie dei Quattro martiri sotto l’altare maggiore e, fino a non molto tempo fa, anche la testa di S.Sebastiano: la reliquia del santo, ritrovata entro un bellissimo vaso d’argento smaltato e contrassegnato da un’iscrizione votiva di papa Gregorio IV, è stata trasferita ai Musei Vaticani. La chiesa sorge sull’omonima via dei Ss.Quattro, che corrisponde al tratto iniziale dell’antica “via Tusculana“, la quale proveniva dal Colosseo, fiancheggiava a sud il “Ludus Magnus“, usciva dalle Mura Serviane dalla “Porta Querquetulana” (situata proprio all’altezza dei Ss.Quattro) e, dopo essersi incrociata con la “Via Caelimontana”, usciva da una posterula presso S.Giovanni in Laterano e si dirigeva verso Tuscolo (Frascati).
La Basilica paleocristiana di S.Sabina fu fondata da Pietro d’Illiria nel 425 d.C. durante il pontificato di Celestino I ed ultimata nel 432 sotto Sisto III, sul luogo precedentemente occupato dal “titulus Sabinae“, utilizzando le 24 colonne bianche di marmo ancirano appartenenti al “Tempio di Giunone Regina” che sorgeva nelle vicinanze. Fu restaurata da papa Leone III e poi da papa Eugenio II, che la abbellì con uno splendido ciborio d’argento (scomparso durante il Sacco di Roma nel 1527) e con la “schola cantorum“, ovvero il recinto ricavato nella navata centrale per accogliere i coristi durante le funzioni religiose: questi lavori furono soltanto l’inizio di una serie di rimaneggiamenti che finirono per stravolgere l’intera costruzione. A causa della posizione privilegiata che le permetteva di dominare la zona sottostante ed una parte del corso del Tevere, nel X secolo la basilica venne trasformata in un fortilizio per ordine di Alberico II. In seguito divenne residenza fortificata di alcune nobili famiglie, i Crescenzi prima ed i Savelli dopo: proprio un membro di quest’ultima famiglia, Cencio, divenuto papa con il nome di Onorio III, nel 1219 concesse la chiesa e parte del palazzo a S.Domenico di Guzman, fondatore dell’Ordine dei Predicatori (meglio conosciuti come “Domenicani”), che qui visse e operò, tanto che la sua cella, trasformata in cappella, è tuttora visitabile. Quando nel 1222 i religiosi lasciarono alle Domenicane il convento di S.Sisto per insediarsi nel complesso di S.Sabina, questo era stato già trasformato ed adattato alle esigenze monastiche: a quest’epoca risale la costruzione del chiostro e del campanile. Questa chiesa, definita “la perla dell’Aventino“, fu restaurata nel 1587 da Domenico Fontana per incarico di Sisto V: in questa occasione furono radicalmente trasformati gli aspetti medioevali della chiesa, con la demolizione della “schola cantorum” e del ciborio, la costruzione di un nuovo altare maggiore con un grande baldacchino, la muratura di quasi tutte le finestre, l’asportazione dei marmi dell’abside e del soffitto a lacunari. Nel 1643 fu ulteriormente restaurata da Francesco Borromini e nel 1938 da Antonio Muñoz, su commissione dell’Ordine Domenicano, in occasione del quale la chiesa fu riportata all’antico aspetto medioevale, eliminando le sovrastrutture barocche. Nel 1874 il Comune di Roma utilizzò l’edificio conventuale come lazzaretto, in occasione di un’epidemia di colera che colpì la città. Vari scavi furono compiuti sotto la chiesa negli anni 1855-1857 e 1936-1939, nel corso dei quali apparvero resti delle Mura Serviane, con la chiara sovrapposizione di due fasi: quella arcaica, in cappellaccio, e quella dell’inizio del IV secolo, in tufo di Grotta Oscura. Vari edifici furono costruiti a ridosso delle mura: i più antichi, con muri in opera incerta e pavimenti in mosaico con inserzione di pezzi di marmo, furono identificati come abitazioni private del II secolo a.C. Più tardi alcuni edifici in reticolato furono costruiti al di fuori delle Mura, nelle quali vennero allora aperti quattro passaggi per permettere la comunicazione fra l’interno e l’esterno. Nel II secolo d.C. alcuni ambienti vennero restaurati ed utilizzati da una comunità isiaca, come appare dai soggetti delle pitture conservate e dai graffiti. Rifacimenti in mattoni nel III secolo d.C. trasformarono parte di questi edifici in un impianto termale, ornato da affreschi. Altri saggi sotto il quadriportico della chiesa rivelarono la presenza di una “domus” del III-IV secolo, nella quale si vuole identificare la residenza di Sabina, e quella di una strada antica, che correva parallela al “vicus Armilustri“, da identificare, a causa del suo percorso sulla cresta più elevata della collina, con il “vicus Altus“. Assai interessanti gli scavi effettuati all’interno della basilica, dove sono apparse abitazioni con magnifici pavimenti marmorei dell’inizio dell’età imperiale: in particolare un piccolo tempio in antis, con due colonne di peperino fra le ante, risalente al III secolo a.C., che fu messo fuori uso da un muro in opera reticolata, risalente alla fine della Repubblica o agli inizi dell’età imperiale, che ne chiuse gli intercolumni. Si tratta di uno dei tanti santuari della zona, probabilmente quello “di Libertas“: notevole il fatto che il tempio venne poi sostituito da una ricca “domus” nel I secolo d.C. Il duecentesco portico (nella foto in alto sotto il titolo) con arcate su colonne (quelle originali, di marmo nero, sono oggi conservate al Museo Chiaramonti in Vaticano) che si affaccia sulla piazza Pietro d’Illiria, sovrastato dalle finestre della navata destra, costituisce un ingresso laterale e quasi sempre chiuso. Per entrare nella chiesa è necessario attraversare il portico a pilastri in laterizio e giungere all’atrio, racchiuso da otto colonne di età romana, quattro di marmo bianco e quattro di granito, dove vi è conservato materiale di spoglio della chiesa: avanzi di transenne originali delle finestre, lapidi e frammenti provenienti dalle sepolture del quadriportico, due fronti di sarcofagi romani riutilizzate, sulla facciata originariamente non lavorata, come lastre tombali cristiane. Una presenta da un lato la scena del matrimonio pagano, la “dextrarum iunctio“, e dall’altra ricorda la sepoltura di Ildebrando da Chiusi; la seconda lastra presenta su un lato la porta degli inferi socchiusa e sull’altro il ricordo della sepoltura di Sisto Fabri. In fondo all’atrio si erge la statua di S.Rosa da Lima (1668).
Sulla sinistra, attraverso una piccola apertura nel muro, protetta da un vetro, si può ammirare una pianta di arancio (nella foto 1) che, secondo la tradizione domenicana, fu qui piantata nel 1220 da S.Domenico di Guzmán. Si narra che il Santo avesse portato con sé un pollone della pianta dalla Spagna, sua terra di origine, e che questo frutto sia stato il primo ad essere trapiantato in Italia. L’arancio, messo in risalto da un muretto circolare con la scritta “LIGNUM HABET SPEM“, ossia “il legno mantiene la speranza”, è considerato miracoloso in quanto a distanza di secoli continua a riprodursi e fruttificare mediante nuovi alberi nati direttamente su quello originale. L’atrio presenta due dei tre antichi ingressi alla chiesa, mentre il terzo venne chiuso nel XIII secolo per consentire la costruzione del campanile.
Un portale ligneo, inquadrato da una magnifica cornice marmorea, permette di accedere all’interno della chiesa, ma quello degno di menzione è il portale laterale in legno di cipresso del V secolo (nella foto 2, oggi in parte coperto da lastre protettive), contemporaneo quindi alla costruzione della chiesa, unico monumento di tal genere rimasto a Roma: gli stipiti sono ricavati da cornici di età romana ed i 18 pannelli a rilievo superstiti dei 28 originali raffigurano “Scene dell’Antico e Nuovo Testamento“. Interessante notare che il primo pannello a sinistra raffigura Cristo in croce tra i due ladroni e, visto che risale al V secolo, rappresenta la più antica raffigurazione plastica della Crocifissione. Nel 1836 i pannelli furono restaurati e fu proprio in questa occasione che nel pannello raffigurante il “Passaggio del Mar Rosso” il restauratore modificò il volto del Faraone in procinto di annegare raffigurandovi quello di Napoleone Bonaparte, segno inequivocabile di un odio profondo per il generale francese, deceduto già 15 anni prima. L’interno della chiesa è a tre navate divise da 24 colonne corinzie scanalate sui cui capitelli poggiano archi: su essi corre un fregio di età romana ottenuto con marmi policromi. La luce oggi filtra dall’alto delle 29 vetrate del IX secolo (riaperte soltanto all’inizio del Novecento); le pareti un tempo erano rivestite da tarsie romane di cui oggi restano scarse tracce, mentre sulle pareti laterali sta un ornato floreale ad affresco del V secolo. Importante è la grande iscrizione metrica con l’affermazione del primato papale, Vescovo di Roma, che ricorda sia papa Celestino I sia S.Pietro d’Illiria: l’autore dei versi è ritenuto S.Paolino da Norcia. Ai lati sono situate due grandi figure femminili allegoriche, una rappresentante la Chiesa di Gerusalemme con l’Antico Testamento in mano e l’altra la Chiesa Romana con il Nuovo Testamento. Il tutto realizzato in uno splendido mosaico policromo che veniva completato, in origine, lungo le pareti della navata, dalle figure degli apostoli Pietro e Paolo e dagli Evangelisti, mentre sull’arco trionfale vi erano le figure della Gerusalemme terrena e celeste, del Cristo con gli Apostoli ed i quattro evangelisti: quest’ultima serie iconografica è stata ricostruita nei tempi moderni con affreschi.
La navata destra presenta la Cappella di S.Giacinto con il “Trionfo ed episodi della vita del santo” di Federico Zuccari e conserva anche un’antica colonna romana che fuoriesce dal pavimento (nella foto 3), a testimonianza della fase più antica della chiesa.
La navata sinistra presenta invece la Cappella di S.Caterina con la “Madonna del Rosario” del Sassoferrato, mentre è da segnalare, sulla base della terza colonna, la firma di Rufeno (nella foto 4), molto probabilmente colui che eseguì materialmente il lavoro. Sull’altare è posta una tela con la “Madonna e S.Giacinto“, opera cinquecentesca di Lavinia Fontana.
Nel presbiterio è stata ricostruita, usando i frammenti originali, l’antica “schola cantorum” (nella foto 5) dai plutei ornati da racemi e dalla Croce. Il catino absidale presenta un affresco raffigurante “Cristo tra gli apostoli” di Taddeo Zuccari.
Al centro della navata centrale è posta una pietra tombale (nella foto 6) di uno dei primi generali dei domenicani, Muñoz de Zamora (1380), unica a Roma per le decorazioni a mosaico.
Alla destra del bellissimo portale ligneo è situata una colonnina che indica il luogo dove, secondo la tradizione, S.Domenico passava le notti in preghiera: sopra vi è posta una pietra di basalto nero (nella foto 7), quasi certamente un peso di un’antica bilancia romana. La leggenda vuole che il diavolo, mal tollerando l’intensa pietà con cui S.Domenico pregava sul sepolcro contenente le ossa di alcuni martiri, gli scagliò contro questa pietra, che non colpì il santo ma infranse la lapide che copriva il sepolcro: le spaccature, sia sulla lapide che sulla pietra, sono ancora ben visibili. La verità probabilmente è che fu l’architetto Domenico Fontana, durante il restauro del 1587, a ridurre la lapide in frammenti, poi recuperati e ricomposti.
Innalzato direttamente all’interno della navata sinistra, sacrificando un ingresso alla chiesa, è situato il campanile (nella foto 8), di struttura quadrata ed alto 25 metri: composto di materiale laterizio di recupero e lavorato a finta cortina, risale al XIII secolo. Originariamente era costituito da quattro piani, sormontato dalla cella campanaria a doppio ordine di trifore; nel XVII secolo furono amputati tre lati della cella campanaria, lasciando solo un lato a sorreggere il peso delle tre campane, risalenti al 1596, al 1843 e al 1946. Non si può certo dimenticare il chiostro, uno tra i più belli di Roma: molto ampio ed a pianta rettangolare, presenta le gallerie divise in campate da pilastrini quadrati in mattoni. Le campate, sette nei lati lunghi e sei nei lati corti, sono formate da quattro archetti sorretti da colonnine di marmo, in alternanza singole e binate, che poggiano sullo stilobate: quelle singole hanno capitelli a stampella, le altre a nenufari. La sopraelevazione cinquecentesca compromise la staticità delle gallerie, nonostante l’impiego delle volte che sostituirono l’antico tetto; fu quindi necessario incorporare alcune colonnine dentro i mattoni, per sostenerle, evitando che cedessero sotto il peso del piano superiore.
Piazza di S.Luigi de’ Francesi prende il nome dalla omonima chiesa (nella foto sopra) che quivi sorge, ma un tempo, prima della costruzione della chiesa, era denominata “piazza Saponara”, dai fabbricanti di sapone che si erano stabiliti in questa zona. La storia della chiesa inizia nel 1478, allorché papa Sisto IV donò alla Colonia Francese di Roma una parrocchia che fu dedicata alla “Concezione della Beata Vergine Maria, a S.Dionigi e a S.Luigi, re di Francia” (patroni della Nazione Francese) ed istituì una Confraternita con il medesimo nome, primo nucleo della Congregazione dei Pii Stabilimenti Francesi, che tuttora amministra le fondazioni religiose della nazione.
La costruzione della nuova chiesa iniziò nel 1518, per volontà del cardinale Giulio de’ Medici (futuro papa Clemente VII), sotto la direzione di Jean Chenevières, anche se, dopo una sospensione dei lavori, fu completata soltanto nel 1589 da Domenico Fontana su disegno di Giacomo Della Porta. La facciata rivestita di travertino, divisa in due ordini e in cinque campate per mezzo di lesene, è sormontata da un timpano triangolare con lo stemma di Francia. L’ordine inferiore presenta un grande portale, inquadrato da due colonne e sormontato da un timpano triangolare spezzato, ed è affiancato da altri due ingressi minori e nicchie con statue di Carlo Magno (nella foto 1) e di S.Luigi (nella foto 2, ovvero Luigi IX, re di Francia), opere di Pierre Lestache.
Sotto le due statue vi sono due tondi in pietra all’interno dei quali vi è raffigurata la salamandra coronata e circondata dal fuoco: l’animale, secondo un’antica leggenda ritenuto immune dal fuoco, fu scelto da Francesco I che lo pose al centro del suo emblema personale con il motto “NUTRISCO ET EXTINGUO“, ovvero “nutro (il fuoco buono) ed estinguo (quello cattivo)”. Infatti il tondo sottostante la statua di Carlo Magno (nella foto 1) riporta proprio questo motto (seppur modificato in “EXTINGO“), mentre l’altro tondo sottostante la statua di S.Luigi (nella foto 2) riporta il motto “ERIT CHRISTIANORUM LUMEN IN IGNE“, ovvero “Sarà la luce dei cristiani nel fuoco”. L’ordine superiore presenta invece una grande finestra con balaustra, nicchie con statue di S.Clotilde e di S.Giovanna di Valois, anch’esse opere di Pierre Lestache, e due finestre laterali. L’interno è a tre navate, scandite da massicce arcate separate da pilastri, definite lateralmente da cinque cappelle per lato, concluse da un profondo presbiterio e coperte da un’elaborata volta a botte.
Notevoli sono le opere d’arte ivi conservate, come i famosi quadri del Caravaggio realizzati tra il 1597 ed il 1602, la “Vocazione di S.Matteo”, “S.Matteo e l’Angelo” ed il “Martirio di S.Matteo” (rispettivamente da sinistra a destra nelle foto 3). I quadri appartengono alla piena maturità dell’artista e rappresentano il momento più alto e compiuto della sua produzione, quello in cui il luminismo, ovvero l’uso drammatico e violento della luce e delle ombre, raggiunge il suo massimo intento realistico. Nella seconda cappella della navata sinistra, quella dedicata a S.Cecilia, vi sono gli affreschi del Domenichino che illustrano le “Storie della vita di S.Cecilia” e la pala d’altare con “S.Cecilia” di Guido Reni; tra le tombe è da segnalare il “Sepolcro di Pauline de Beaumont”, morta di tisi nel 1805, innalzatole dallo scrittore Chateaubriand. A destra della chiesa, e ad essa annesso, vi è il Palazzo di S.Luigi dei Francesi, costruito tra il 1709 ed il 1716 su progetto di Matteo Sassi e Carlo Francesco Bizzaccheri e destinato “a dar ricovero alla comunità religiosa francese e ai pellegrini senza risorse”.
Il palazzo presenta l’ingresso principale in via di S.Giovanna d’Arco (nella foto 4) con un maestoso portale sovrastato da un balcone con grande finestra, inquadrata da due colonne ioniche, sovrastata da un timpano arcuato al centro del quale svetta lo stemma e la corona reale di Francia; corone e gigli francesi sono anche sui timpani delle finestre. La facciata su piazza Madama fu completamente trasformata da Luca Carimini in occasione dei lavori di ristrutturazione dell’edificio che si ebbero tra il 1882 ed il 1888.
Il prospetto su Corso del Rinascimento presenta aperture al pianterreno ad arco ribassato con giglio e due portaletti, ambedue con gigli, uno dei quali (nella foto 5) presenta un’iscrizione del 1627 relativa al pontificato di Urbano VIII ed al regno di Luigi XIII, sovrastato da una piccola nicchia: questo era l’ingresso dell’ospizio, eretto, come si legge nell’iscrizione, dalla “Congregazione dei curiali di S.Luigi”, sotto il rettorato di Girolamo de Cothereau e Tommaso Vibo. All’interno del palazzo vi è un cortile, nel portico del quale è situato un busto raffigurante il Cristo che proviene dalla demolita chiesa di “S.Salvatore in Thermis” e che, secondo la tradizione, raffigurerebbe un figlio di Vannozza Cattanei, ossia Cesare Borgia.
Sul versante opposto della piazza di S.Luigi de’ Francesi vi sono due edifici adiacenti: al civico 34 vi è il Palazzo degli Stabilimenti Spagnoli (nella foto 6), la struttura originaria del quale risale al Cinquecento, quando fu costruito per don Pedro Aranda, vescovo di Cathorra, trasformando un edificio trecentesco acquistato dal prelato nel 1491. Nel 1562 l’edifico fu acquistato dalle Opere Pie della chiesa di Santiago e fu destinato ad accogliere i pellegrini spagnoli a Roma. Tra il 1742 ed il 1744 fu completamente trasformato assumendo l’aspetto attuale a tre piani, senza particolari decorazioni, con un modesto portale cui fa da architrave il balcone del primo piano. La sopraelevazione centrale è ottocentesca; oggi il palazzo è di proprietà del Senato della Repubblica Italiana ed è stato restaurato nel 1989.
L’altro edificio, situato al civico 37, è Palazzo Patrizi (nella foto 7), la struttura originaria del quale risale ad una modesta casa che Gaspero dei Garzoni di Jesi acquistò nel 1512 da Alfonsina Orsini e che venne modificata in una serie di lavori svoltisi ad intervalli, nel contesto di un susseguirsi di compravendite dell’edificio operate dai suoi eredi. Nel 1605 il palazzo fu acquistato da Olimpia Aldobrandini, che acquistò anche un edificio adiacente, proprietà dell’Arciconfraternita della Carità e dell’Ospedale della Consolazione. La nuova padrona fece unire i due edifici in un’unica costruzione, commissionandone la facciata, che venne completata nel 1611: sebbene siano stati fatti i nomi di Giacomo Della Porta, di Carlo Maderno e di Giovanni Fontana, tuttora resta difficile determinarne l’attribuzione. Nel 1642 il palazzo fu venduto ai Patrizi, antica famiglia senese stabilitasi a Roma nel 1537 ed estintasi con Maria Virginia, sposa nel 1726 di Giovanni Chigi Montoro; questi prese il cognome dei Patrizi, la cui figlia Porzia sposò il marchese Tommaso Naro, da cui discendono i marchesi Patrizi Naro Montoro, attuali proprietari dell’edificio. Il palazzo fin dal 1690 fu oggetto di varie modifiche e ristrutturazioni operate, in particolare, nel primo Settecento da Sebastiano Cipriani; ulteriori lavori si ebbero nel 1747 ed altri rinnovamenti nel 1823 ad opera di Luigi Moneti. La facciata sviluppa su tre piani ed un mezzanino, oltre la sopraelevazione ottocentesca; il portale, decentrato, presenta due mensole con stelle e banda merlata, elementi araldici dello stemma Aldobrandini, che si ripetono anche sulle finestre e sul cornicione, ed è affiancato da due finestre architravate ed inferriate, due a destra ed una a sinistra. Al primo piano, quattro finestre con timpano triangolare e centinato alternato, sovrastati da festoni di frutta e nastri; al secondo, quattro finestre architravate, sovrastate da tre finestrelle ovali, una delle quali murata; al terzo, quattro finestre riquadrate, l’ultima delle quali è una porta-finestra che apre su un balcone ad angolo che gira su via Giustiniani, sul quale la facciata presenta caratteristiche simili. All’angolo un cantonale bugnato fino al balcone custodisce una Madonnella costituita da un dipinto ad olio su tela raffigurante l’immagine dell’Addolorata, riprodotta a mani incrociate sul seno e sguardo rivolto al cielo. Intorno alla cornice quadrangolare sono disposti fregi a motivi floreali, festoni ed una ghirlanda di rose. Al di sopra vi è collocato un baldacchino in lamiera con elaborati motivi ornamentali a traforo a forma di merletto; l’edicola è completata da una lanterna a braccio. Dal portale del palazzo si accede al cortile attraverso un vestibolo a volta con archi poggianti sul lesene singole e doppio alternativamente; a sinistra del vestibolo una sala con archi ribassati e statue entro nicchie. All’interno è notevole l’atrio del primo piano con soffitto a cassettoni del Cinquecento. Si distinguono un salone verde con un fregio rappresentante scene bibliche e quadri del Seicento e Settecento ed un salone da ballo con numerose tele, tra le quali Le Muse di Francesco Solimena. Sul soffitto della cappella vi sono affreschi del Settecento raffiguranti la “Vergine col Bambino” e tre beati della famiglia Patrizi, Saverio, Antonio e Francesco.
La chiesa di S.Agostino (nella foto sopra), situata nell’omonima piazza, fu una delle prime chiese romane del Rinascimento e le sue origini risalgono al XIV secolo quando gli agostiniani, che già officiavano la chiesa di S.Trifone in Posterula, decisero di costruire una nuova struttura per il loro convento e di dedicarla a S.Agostino. La nuova chiesa, edificata tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento ed ultimata soltanto nel 1420, risultò però troppo piccola per le esigenze della comunità conventuale e troppo in basso rispetto al corso del Tevere, soggetta quindi alle sue piene. Per questo motivo pochi anni dopo, tra il 1479 ed il 1483, la chiesa fu riedificata, perpendicolarmente rispetto alla precedente e rialzata dal piano stradale tramite una bella scalinata, ad opera di Giacomo da Pietrasanta e Sebastiano da Firenze e per volontà del cardinale Guillaume d’Estouteville. Soltanto nel 1484 gli agostiniani vi si trasferirono, lasciando la chiesa di S.Trifone alla confraternita del Ss.Sacramento. La chiesa di S.Trifone iuxta posterulas o in Posterula era di origini molto antiche, forse risalente all’VIII secolo, ed il nome le derivava dalle posterule, ossia i varchi aperti nelle limitrofe Mura Aureliane per accedere al Tevere. Nel 1287 papa Onorio IV la concesse agli eremitani di S.Agostino, i quali aggiunsero al nome originario quello di S.Agostino, loro santo protettore. La chiesa era situata presso via della Scrofa e fu demolita nel 1746 quando il Vanvitelli ingrandì il convento di S.Agostino. In questi stessi anni, tra il 1746 ed il 1750, Luigi Vanvitelli trasformò radicalmente anche l’interno della chiesa di S.Agostino, modificando la cupola emisferica su tamburo cilindrico, primo esempio di cupola rinascimentale a Roma, con una volta a catino; aggiunse inoltre le volute laterali della facciata e trasformò il campanile cuspidato quattrocentesco in una torre quadrata.
La maestosa facciata a due ordini è rivestita da blocchi di travertino provenienti, secondo la tradizione, dal Colosseo. Nel timpano sovrastante l’ingresso centrale è scolpito lo stemma del cardinale d’Estouteville; sulla facciata si legge il nome di chi la fece costruire: “GUILLERMOUS DE ESTOUTEVILLA EPISCO. OSTIEN. CARD. ROTHOMAGEN. S.R.E. CAMERARIUS FECIT MCCCCLXXXIII”, ovvero: “Guglielmo di Estouteville vescovo di Ostia, cardinale di Rouen, camerlengo di Santa Romana Chiesa, fece nel 1483”. Il portale principale è sormontato da un affresco, posto all’interno di un riquadro, raffigurante la Consegna della Regola Agostiniana (secolo XVIII) ed è affiancato da due portali minori sovrastati da due finestre tonde. L’interno, a croce latina, è suddiviso da pilastri in tre navate, con cinque cappelle su ognuna delle navate laterali, un transetto ed un’abside affiancata da altre cappelle. Varcato l’ingresso, sulla destra troviamo la famosa “Madonna del Parto” (nella foto 1), che la tradizione vuole fosse stata realizzata con l’adattamento di un’antica statua romana raffigurante “Agrippina con il piccolo Nerone in braccio“, mentre è superba fattura del 1516 di Jacopo Tatti detto “il Sansovino”. La Vergine, forse la più venerata della Madonne romane, è seduta in trono con il Bambino in piedi sulla gamba sinistra ed è traboccante di ex voto di ogni genere. Fin dagli inizi dell’Ottocento la scultura è considerata la protettrice delle partorienti tanto da essere appunto denominata la Madonna del Parto: lungo l’architrave corre infatti la scritta “VIRGO GLORIA TUA PARTUS” ovvero “O Vergine il parto è la tua gloria”. Una curiosità: Pio VII, nel 1822, concesse un’indulgenza a chi avesse baciato il piede che sporge dal panneggio della Vergine e la consuetudine ebbe un tale successo che il piede di marmo divenne in breve tempo talmente consumato da rendere necessaria la sostituzione con un piede d’argento, come è possibile tuttora notare.
La navata centrale è inquadrata da pilastri sostenenti arcate a tutto sesto, sopra le quali si snodano 12 storie della vita della Vergine Maria: in particolare, il terzo pilastro sinistro (nella foto 2) custodisce un gruppo marmoreo rappresentante “S.Anna che riunisce in un unico abbraccio la Vergine Maria ed il Bambino”, opera di Andrea Sansovino (nella foto 3): nel giorno di S.Anna tutti i poeti di Roma venivano ad appendere intorno al simulacro i loro componimenti poetici, che si conservano ancora in un volume conservato nella chiesa.
A questo gruppo scultoreo è collegato il sovrastante affresco di Raffaello (nella foto 4) del 1512 raffigurante il profeta Isaia fiancheggiato da due putti che reggono la scritta dedicatoria in greco “a S.Anna madre della Vergine, alla Vergine madre di Dio, a Cristo il Salvatore“, mentre il profeta mostra un cartiglio con la scritta in ebraico “aprite le porte onde il popolo che crede entri“.
L’altare maggiore (nella foto 5), progettato nel 1627 dal Bernini e realizzato da Orazio Turriani, fu inaugurato nel 1628 ed al centro è collocata l’icona bizantina raffigurante la “Vergine con Bambino” proveniente dalla chiesa di S.Sofia a Costantinopoli. La prima cappella della navata sinistra è la Cappella della Madonna di Loreto, famosa per ospitare uno dei massimi capolavori di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, la “Madonna dei Pellegrini” (nella foto 6). Le figure circondate dall’oscurità risaltano nella loro pienezza e drammaticità: ai piedi di una giovane madre appoggiata allo stipite di una casa povera, sono umilmente in ginocchio due pellegrini vestiti di stracci a mani giunte in segno di adorazione e gioia nel vedere le due dolci figure. Il bambino investito di spalle dalla luce rivolge loro lo sguardo come la mamma e tende la mano in segno di benedizione.
L’opera venne commissionata al Caravaggio, ai primi del ‘600, dal notaio bolognese Cavalletti per essere posizionata nella cappella di famiglia, ma quando il dipinto fu esposto al pubblico “ne fu fatto dai preti e da’ popolani estremo schiamazzo”. Secondo alcuni studiosi l’opera suscitò scalpore perché il Caravaggio utilizzò, come modella per la Madonna, tale Maddalena Antognetti, detta Lena, che varie fonti indicano come prostituta, altre come amante dello stesso Caravaggio. Proprio a Lena è legato uno dei vari episodi violenti legati al grande artista: sembra, infatti, che Lena avesse posato per il Caravaggio contro la volontà del notaio Mariano Pasqualone, spasimante della donna, e che questi avesse insultato la madre di Lena per averla ceduta “ad uno scomunicato e maledetto”.
Il carattere litigioso e violento dell’artista non si smentì neanche in questa circostanza tanto che a piazza Navona aggredì il Pasqualone con una scure, fatto questo che lo costrinse prima a chiedere asilo, per qualche tempo, proprio nella chiesa di S.Agostino e poi a fuggire a Genova. Probabilmente non fu la presenza di Lena nel dipinto a destare scalpore, bensì gli “umili pellegrini”, raffigurati con la pelle rugosa, gli abiti sdruciti ed i piedi piagati e sudici per il faticoso viaggio, nonché la cuffia della donna, anch’essa sporca e rovinata che andava contro i canoni non solo dell’arte del tempo, ma anche, e specialmente, di quelli derivanti dal Concilio di Trento. La seconda cappella è quella di Pio, così denominata in quanto il progetto della cappella fu affidato da Angelo Pio al Bernini. Segue la Cappella di S.Chiara, con la pala dell’altare di Sebastiano Conca (1680-1764); gli affreschi del catino sono attribuiti a Girolamo Nanni. La quarta cappella è quella di S.Apollonia, raffigurata con un’opera di Girolamo Muziano (1532-1592); di Francesco Rosa (1638-1687), allievo di Pietro da Cortona, sono i dipinti a lato dell’altare e sulla volta con l’affresco “Gloria di S.Apollonia”. La quinta cappella è dedicata a S.Giovanni di San Facondo. La navata di destra inizia con la cappella dedicata a S.Caterina, alla quale segue quella dedicata a S.Giuseppe. La terza cappella è dedicata a S.Rita, opera di Giovanni Contini (1641-1723), allievo del Bernini: sopra l’altare si trova l’Estasi di S.Rita di Giacinto Brandi (1623-1691). La quarta cappella è dedicata a S.Pietro, raffigurato nel gruppo marmoreo realizzato nel 1569 da Giovanni Battista Cassignola “Gesù che consegna le chiavi a S.Pietro”; nel timpano spezzato, sopra l’altare, si trova un Dio Padre circondato da cherubini, un dipinto su tavola attribuito alla scuola del Pinturicchio (fine del XV secolo). La navata chiude con la Cappella del Crocifisso, un pregevole Crocifisso ligneo del XVI secolo, davanti al quale la tradizione vuole si recasse a pregare S.Filippo Neri. Il transetto ospita due cappelle: a destra troviamo la Cappella di S.Agostino, che custodisce, sopra l’altare, il dipinto “S.Agostino tra S.Giovanni Battista e S.Paolo Eremita” del Guercino (Giovanni Francesco Guerrieri 1591-1666), mentre ai lati “S.Agostino lava i piedi al Redentore” (a sinistra) e “S.Agostino sconfigge le eresie” (a destra), opere del Lanfranco (1580-1647). Sul lato sinistro invece si trova la Cappella di S.Tommaso da Villanova, ricca di marmi pregiati, opera di Giovanni Baratta (1644-1679); la scultura sopra l’altare è “S.Tommaso da Villanova e la Carità” di Melchiorre Caffà (1638-1667), che fu ultimata da Ercole Ferrata (1610-1686) per la morte prematura del suo allievo; sopra al timpano il Dio Padre è ancora di Ercole Ferrata. Accanto all’altare troviamo le altre cappelle: a destra si trova la Cappella di S.Nicola da Tolentino, mentre a sinistra si trova la Cappella di S.Monica, madre di S.Agostino: il dipinto sopra l’altare è di Giovanni Gottardi (1733-1812), mentre gli affreschi della volta sono di Giovanni Battista Ricci. In questa cappella riposa S.Monica, morta ad Ostia nel 387 e trasportata nel 1430 nella chiesa di S.Trifone.
Al centro della parete sinistra si trova il sarcofago (nella foto 7) appartenente all’antico monumento dedicato alla Santa; la parte centrale di questo sarcofago è l’originale in cui S.Monica venne sepolta a Ostia, mentre la parte superiore fu scolpita da Isaia da Pisa nel 1455. Il sarcofago fu trasportato per volere di Luigi Vanvitelli da S.Trifone in questa chiesa nel 1750 e le reliquie poste all’interno dell’urna in marmo verde posta sotto l’altare. Accanto a questa si trova anche la cappella dedicata ai Santi Agostino e Guglielmo, uno dei capolavori di Lanfranco: entrando a sinistra vediamo “S.Guglielmo curato dalla Vergine”, di fronte “S.Agostino medita sulla Santa Trinità” e sull’altare “l’Incoronazione della Vergine con i Santi Agostino e Guglielmo”; l’affresco nella lunetta mostra gli “Apostoli intorno alla tomba vuota della Vergine”, mentre sulla volta “l’Assunzione della Vergine”. Nella chiesa, oltre a quella di S.Monica appena accennata, vi sono altre sepolture illustri, come i cardinali Lorenzo e Renato Imperiali, la penultima figlia di Lorenzo il Magnifico Contessina de’ Medici ed il cardinale Girolamo Verallo: è curioso notare che, insieme alle venerate spoglie di santi e cardinali, giacessero al proprio interno, unica chiesa di Roma, anche le salme di famose cortigiane di alto bordo, diversamente dalle prostitute di basso ceto che invece venivano sepolte nella zona del Muro Torto. In questa chiesa trovarono sepoltura Fiammetta, amante preferita di Cesare Borgia, Giulia Campana, la famosa Tullia d’Aragona e la sorella Penelope: le tombe sono tutte scomparse, forse eliminate dal furore della Controriforma. Le cortigiane erano assidue frequentatrici di S.Agostino, tanto che avevano dei banchi a loro destinati nelle prime file al fine di evitare che i fedeli, guardandole, si distraessero durante le prediche e le sacre funzioni. Il primo organo a canne dell’attuale basilica risale al 1431 e qui rimase sino al 1657-1658, quando venne sostituito da un nuovo strumento opera di Giuseppe Catarinozzi e Giuseppe Testa. Questo, distrutto da un incendio, fu sostituito da un altro organo, costruito da Giacomo Alari nel 1682. Nel 1838 venne inaugurato un nuovo strumento, voluto dal cardinale Cesare Brancadoro e costruito da Angelo Morettini ed ampliato nel 1867. Questo venne rimosso nei primi anni del XX secolo ed al suo posto venne installato un nuovo organo a canne, costruito nel 1905 da Carlo Vegezzi-Bossi e restaurato fra il 2005 e il 2007 dai suoi successori. Attualmente l’organo, collocato sull’apposita cantoria lignea in controfacciata, ha tre tastiere di 58 note ciascuna ed una pedaliera dritta di 30 ed è a trasmissione pneumatico-tubolare.