13 Dicembre 2012

KIERKEGAARD, SØREN AABYE Filosofo e teologo danese (Copenhagen 1813 – ivi 1855).

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KIERKEGAARD: IL SENTIMENTO DI ANGOSCIA – PHILOSOPHICA & THEOLOGICA

KIERKEGAARD, SØREN AABYE

Filosofo e teologo danese (Copenhagen 1813 – ivi 1855).

LE VICENDE BIOGRAFICHE

Solo apparentemente la biografia di K., certo piuttosto scarna, ha un rilievo secondario: la sua vita fu pressoché interamente dedicata all’attività intellettuale, grazie all’eredità paterna, che gli consentiva una vita agiata; ma i pochi eventi fondamentali che la segnarono – il rapporto con il padre, e il terribile episodio della «maledizione di Dio» da parte di quest’ultimo, il tormentato amore con Regina Olsen, con cui egli decise di troncare il fidanzamento, i vivaci contrasti con la Chiesa protestante danese, che furono condivisi da ampi strati dell’opinione pubblica danese, tanto che i suoi funerali ebbero larga partecipazione di popolo – sono difficilmente separabili dal complesso della sua opera; né si può sottovalutare il peso dei viaggi a Berlino, in partic. di quello del 1841-42, in cui egli ebbe modo di assistere alle lezioni di Schelling. Vero fondatore dell’esistenzialismo, K. ha insomma incarnato nella sua persona il principio secondo cui «l’esistenza precede l’essenza», realizzando in una misura che forse è stata raggiunta solo da Nietzsche (personaggio insieme estremamente diverso e straordinariamente affine al suo) una strettissima integrazione di vita e riflessione filosofica, svoltasi con un ritmo febbrile in un arco di tempo assai breve. Opere principali: Om begrebet ironi (1841; trad. it. Sul concetto di ironia con riferimento costante a Socrate); Enten-eller (1843; trad. it. Aut-Aut()Frygt og Baeven (1843; trad. it. Timore e tremore); Gjentagelse (1843; trad. it. La ripresa); Philosophiske Smuler (1844; trad. it. Briciole di filosofia); Begrebet Angest (1844; trad. it. Il concetto dell’angoscia); Stadier paa livets vej (1845; trad. it. Stadi sul cammino della vita); Afsluttende uvidenskabelig efterskrift til de philos;ophiske smuler (1846; trad. it. Postilla conclusiva non scientifica alle ‘Briciole di filosofia’); Christelige Taler (1847; trad. it. Discorsi cristiani); Sygdommen til døden (1849; trad. it. La malattia mortale); Indøvelse i christendom (1850; trad. it. Esercizio del cristianesimo); fondamentali, per la comprensione della vicenda interiore di K., i Diari.

L’INTERPRETAZIONE DELLA FEDE

La riflessione filosofica e la vicenda esistenziale di K. si sviluppano in un seguito di opere ed eventi estremamente serrato, segnando un approfondimento di temi e questioni che fin dai primi scritti sono abbozzati chiaramente. Caratteristiche di fondo del suo pensiero sono per un lato un’esperienza religiosa e cristiana (anche se di un cristianesimo assai peculiare) intensissima, per la quale decisivo è il rapporto con l’esperienza pietistica settecentesca e la specifica modalità sentimentale, mistica e soggettiva che tale corrente aveva impresso al luteranesimo; per l’altro il rapporto con la cultura romantica e idealistica tedesca: con gli Schlegel e Jean Paul, con l’odiato-amato Hegel, con Schelling, che certo lo deluse, ma da cui pure trasse insegnamenti decisivi. Dalla congiunzione di queste due tradizioni nasce la cifra fondamentale della personalità di K., quella che lo caratterizza dalla prima all’ultima opera: una religiosità intensamente sentita come rapporto singolareassolutamente individuale dell’anima del credente con Dio e l’inquadramento di essa nelle categorie della filosofia romantico-idealistica, in partic. nella coppia concettuale finito-infinito: il pietista K. sente dunque il rapporto del credente con il suo Dio come un rapporto fra finito e infinito, e dunque come un irriducibile paradosso. Questo paradosso, questa offesa alla logica (il fatto che l’uomo finito senta dentro di sé un rapporto insaziabile con l’infinito, che lo deborda e lo spinge alla negazione di sé) è poi il paradosso della stessa incarnazione del Cristo, evento irriducibile a qualunque spiegazione e documentazione storica e rispetto al quale solo il salto, continuamente rinnovato e mai completamente concluso, in cui si sostanzia la fede, può in qualche modo essere all’altezza. Altri temi fondamentali dell’opera di K., che gli conferiscono un’originalità e una modernità straordinarie, sono quelli della maschera e dello pseudonimo, entrambi legati alla sua riflessione sulla comunicazione: la vera comunicazione non può essere diretta, oggettiva; la verità essendo sempre soggettiva, essa non può essere che data attraverso un approccio complesso e poliedrico, fornendo una serie di punti di vista diversi e anche inconciliabili, che costringono così colui a cui essa è rivolta a interpretarla attivamente, a conquistarla, a essere non un passivo ricettore, ma un soggetto responsabile che sceglie, e sa di rischiare di poter fallire nel raggiungimento della verità, di poter scambiare il vero per il falso. Ma lo pseudonimo rappresenta anche un modo per immedesimarsi pienamente nell’altro e per conquistarlo, per così dire dall’interno, per far produrre a lui stesso il suo punto di vista e insieme la sua critica.

AUT-AUT

In Aut-Aut, opera pubblicata con lo pseud. di Victor Eremita, K., dopo che nella tesi di laurea sul concetto di ironia aveva già delineato, riprendendo un topos della cultura romantica, alcuni aspetti fondamentali della sua riflessione, sviluppa la famosa distinzione fra uno stadio estetico e uno etico della vita, fra i quali (donde il titolo dell’opera) esiste non un semplice passaggio, uno sviluppo, ma un salto, un’alternativa assoluta. Nel primo l’uomo ricerca continuamente il piacere immediato, unendo vita e poesia. La trattazione sul Don Giovanni di Mozart, nota anche come Diario del seduttore, in cui K. sviluppa una fine e originalissima analisi dell’opera, costituisce una parte del testo. Ma l’esistenza estetica mette capo alla noia e quindi alla disperazione. Vivendo questa non passivamente, ma come scelta deliberata, l’uomo può compiere il salto alla vita etica: vita non più di dissipazione e continuo cambiamento, ma di costanza: al seduttore succede il marito, uomo delle scelte responsabili. È qui che di nuovo compare la categoria romantico-idealistica dell’infinito: la soggettività etica è infinita, poiché è rapporto a Dio, e dunque è assoluto e libertà. Ma nemmeno lo stadio etico basta a sé stesso: l’uomo etico non può che giungere alla consapevolezza della colpa, al pentimento e dunque alla necessità di una vita non semplicemente etica, ma di fede e religiosa.

TIMORE E TREMORE

Questo ulteriore «salto» è quello che K. svilupperà nell’opera immediatamente successiva, Timore e tremore. L’opera, pubblicata sotto lo pseud. di Johannes de Silentio, è una meditazione su un episodio cruciale e terribile dell’Antico Testamento: il sacrificio di Isacco. K. si ribella contro tutte le interpretazioni che vorrebbero riavvicinare alla razionalità e all’etica il comportamento di Abramo, mancando così di cogliere il sentimento fondamentale che ha dovuto provare Abramo: l’angoscia. Estrema angoscia egli dovette provare, poiché l’ingiunzione di Dio di sacrificargli la vita del figlio violava «l’obbligazione etica», secondo cui «verso il figlio il padre ha il dovere più alto e più sacro». Né bisogna dimenticare l’amore profondo che Abramo provava per Isacco. Solo in base a queste considerazioni si può valutare la vera statura di Abramo e vederlo come «cavaliere della fede»: egli rinuncia al figlio in virtù dell’assurdo, cioè della fede nel fatto che a Dio tutto è possibile e che dunque con un prodigio potrà restituirgli Isacco, pur essendo nello stesso tempo convinto che, nella finitezza, «umanamente parlando», ciò sia impossibile. È questo il paradosso della fede, credenza nel prodigio e nella sua impossibilità che va oltre la rinuncia a noi stessi (la rinuncia è ancora qualcosa che noi possiamo decidere), mentre la fede è l’assurdo per cui la singolarità si apre all’infinito, a Dio, a qualcosa che le è assolutamente superiore. Si tratta insomma, per K., «di vedere quale enorme paradosso è la fede, un paradosso […] di cui nessun pensiero può impadronirsi poiché la fede comincia appunto dove il pensiero finisce». Confrontando poi Abramo, il cavaliere della fede, con l’eroe tragico, con Agamennone che deve sacrificare Ifigenia, K. fa rilevare come quest’ultimo abbia dalla sua tutto il suo popolo, che condivide il principio etico superiore a cui egli deve obbedire: Agamennone non è solo e non deve contraddire il «generale», cioè l’etica. Ben diversa è la posizione di solitudine assoluta di Abramo, che si trova come Singolo di fronte a Dio: «l’eroe tragico è grande per la sua verità morale, Abramo è grande per una sua virtù personale». K. può dunque rivendicare, contro Hegel, il carattere assolutamente paradossale della fede come rapporto di Singolarità e Assoluto, rapporto che non è assolutamente trattabile con la categoria della mediazione: «La fede è appunto questo paradosso, che il Singolo come Singolo è più alto del generale […] Il Singolo come Singolo sta in un rapporto assoluto all’Assoluto. Questo punto di vista non si lascia trattare con la mediazione».

IL CONCETTO DELL’ANGOSCIA

In Il concetto dell’angoscia (pubblicato sotto lo pseud. di Vigilius Haufniensis), K. continua questa sua linea di riflessione prendendo a oggetto il tema del peccato originale. Nella situazione anteriore all’angoscia (cap. 1°), l’uomo possiede l’innocenza solo nel senso che ignora la conoscenza della differenza fra bene e male, ossia è questo un momento in cui lo spirito, ancora «sognante», è immerso nel corpo e a lui unito immediatamente. Ora, proprio questa innocenza che è solo ignoranza, questo stato di pace e di quiete in cui «non c’è niente contro cui lottare», è essa stessa angoscia, che si presenta come un nulla esterno all’innocenza e che essa proietta continuamente contro di sé, così come i bambini, ancora ignari della loro libertà, vanno sempre in cerca di essa sotto forma di avventure e misteri: l’angoscia è insomma legata alla libertà che caratterizza l’uomo anche nell’innocenza. E quando Dio pone il divieto, tale divieto «angoscia Adamo poiché […] sveglia in lui la possibilità della libertà». L’angoscia non è dunque solo paura, ma smarrimento, oscuro e inconsapevole, di fronte alla libertà, al fatto cioè che la nostra esistenza è una mera possibilità, che si sporge sul baratro dell’infinito, sospesa, senza aver di essi alcuna chiara idea, fra il bene e il male. Dopo il peccato, che K. vede come passaggio dalla possibilità alla realtà (cap. 2°), questo processo assume più consapevolezza, senza che sia messo in discussione il valore dell’angoscia. Attraverso una serie di complessi e sottili passaggi, questa si svela come vera e propria formatrice dell’uomo come essere libero; essa lo educa alla possibilità, gli apre la dimensione del futuro e quindi lo porta alla vera e propria infinità: «Colui che è formato dall’angoscia è formato mediante possibilità. E soltanto chi è formato dalla possibilità è formato secondo la sua infinità». Ma tale apertura assoluta al possibile data dall’angoscia si realizza solo in quanto in essa il possibile è esperito nel suo aspetto più terribile: nella consapevolezza che in ogni momento siamo esposti all’annientamento e alla morte. Questa costante consapevolezza della morte ci stacca da ogni finitezza e ci rende veramente infiniti, aprendoci alla fede, che è, dice K. riferendosi esplicitamente a Hegel, «la certezza interiore che anticipa l’infinito». L’opera ha avuto una vastissima eco nel 20° sec., diventando in partic. uno dei punti di riferimento fondamentali della filosofia esistenzialistica (Jaspers, Heidegger, Marcel, Sartre, Ricoeur) ( angoscia).

LA POSTILLA

La Postilla conclusiva non scientifica alle ‘Briciole di filosofia’ è, dal punto di vista strettamente filosofico, il testo più importante di K., anche se, con la sua consueta ironia, egli lo presenta come «postilla» alle Briciole di filosofia che aveva pubblicato in precedenza. Come già in quest’opera, il pretesto polemico per la Postilla è offerto a K. da alcune posizioni apologetiche di esponenti della Chiesa luterana danese, che, di fronte alle difficoltà incontrate dalla critica storica nel dimostrare l’autenticità del libri canonici, avevano cercato di sostituire all’autorità della Bibbia quella della Chiesa. Per K. è l’occasione per portare alla massima chiarezza alcuni capisaldi della sua concezione. Nessun accertamento filologico, storico-empirico, così come nessuna dimostrazione speculativa potrà mai metter capo alla fede, poiché prove empiriche e dimostrazioni razionali si muovono nel campo dell’oggettività ed escludono il soggetto. Ora, la verità con cui ha a che fare la religione è il massimamente soggettivo: se mi interrogo su Dio e sulla fede in lui, questo non è un dubbio razionale su qualcosa di esterno a me, ma un dubbio su qualcosa che mi coinvolge in massimo grado. Nella religione la ricerca è caratterizzata da questo paradosso: che colui che cerca è coinvolto pienamente in ciò che cerca. Queste affermazioni che, anacronisticamente, si possono definire epistemologiche, e in cui certo si sentiva l’eco dell’ermeneutica di Schleiermacher, ma con una decisiva radicalizzazione e drammatizzazione, sarebbero state decisive per gran parte della riflessione filosofica novecentesca, ben al di là dei confini religiosi e anche della filosofia esistenzialistica. Ciò risulta ancora più evidente se si considera che la contrapposizione fede-conoscenza si declina per K. anche come contrapposizione fra passione e razionalità. La fede, come presenza di Dio infinito nell’uomo finito, presenza che non può che manifestarsi come negazione, assenza, è più affine all’amore o all’odio che alla conoscenza: il rapporto diretto e di insaziabile desiderio che spinge l’uomo verso Dio eccede ogni logica e anche per questo non può, nella comunicazione, che presentarsi come paradosso assoluto. Nel seguito, K. torna anche sulla distinzione in stadi (estetico, etico) delle opere precedenti, articolandola ulteriormente e distinguendo due stadi anche all’interno della religiosità. Il punto di approdo cui egli giunge, con l’esasperazione del paradosso, lo pone su un singolarissimo crinale fra fede e ateismo: l’estrema soggettivizzazione della religione e l’esasperazione del momento fideistico, visto come un salto o come una pascaliana scommessa da ripetere infinite volte, non mettono capo a nessuna certezza stabile, ma a una infinita, disperata situazione di ansiosa ricerca, in cui fede e non-fede sono in fondo l’una il presupposto dell’altra. Non è un caso dunque che l’irraggiamento del pensiero di K., avvenuto soprattutto nel 20° sec., a partire dalla traduzione tedesca delle sue opere, a cavallo della Prima guerra mondiale, si sia esteso ben al di là di quel cristianesimo, che è certo stato il centro della sua tormentosa ricerca intellettuale e di vita, ma di cui ha finito per mettere in discussione alcuni presupposti fondamentali.

Biografia

Kierkegaard, Soren Aabye

S. KIERKEGAARD

1813

Nasce a Copenhagen

1841-42

Compie un viaggio a Berlino, dove assiste alle lezioni di Schelling

1843

Pubblica Aut-Aut e Timore e tremore

1844

Pubblica Briciole di filosofia e Il concetto dell’angoscia

1846

Pubblica Postilla conclusiva non scientifica alle ‘Briciole di filosofia

1855

Muore a Copenhagen

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Solar (Miles Davis)

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9 Dicembre 2012

Santa Maria sopra Minerva.

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Santa Maria sopra Minerva.

Questo scrigno di arte di storia di religione completamente rinnovata. Uno splendore. Ecco alcune informazioni sulla Basilica di Santa Maria sopra Minerva, una delle poche chiese gotiche di Roma, arricchite da immagini per una migliore comprensione: Basilica di Santa Maria sopra Minerva Situata nel cuore di Roma, in Piazza della Minerva, questa basilica è un gioiello architettonico che affonda le sue radici nel XIII secolo. Il suo nome deriva dal fatto che fu costruita sui resti di un tempio romano dedicato alla dea Minerva. Caratteristiche principali:

  • Stile gotico: L’architettura gotica, con le sue linee slanciate e le vetrate colorate, è una caratteristica distintiva della basilica.

  • Tombe illustri: Al suo interno riposano le spoglie di personaggi storici di grande rilievo, tra cui Caterina da Siena, Beato Angelico e Papa Paolo IV.

  • Opere d’arte: La basilica ospita numerose opere d’arte, tra cui affreschi, sculture e un prezioso obelisco egizio con l’elefante del Bernini.

  • Atmosfera: L’atmosfera all’interno è solenne e suggestiva, perfetta per un momento di raccoglimento e riflessione.

Perché visitarla:

  • Un pezzo di storia: La basilica è un vero e proprio scrigno di storia e arte, che racconta millenni di storia.

  • Un’oasi di pace: Lontana dal caos del centro, la basilica offre un’oasi di pace e tranquillità.

  • Un’esperienza unica: Visitare la basilica è un’esperienza unica, che vi permetterà di immergervi nella storia e nella cultura di Roma.

Curiosità:

  • L’elefante del Bernini: L’obelisco egizio in piazza della Minerva è sostenuto da un elefante, una scultura barocca realizzata da Ercole Ferrata su disegno del Bernini.

  • Caterina da Siena: Le spoglie di Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia, sono conservate in una cappella all’interno della basilica.

    piazza della minerva

    Piazza della Minerva prende il nome dal “Tempio di Minerva Chalcidica” eretto da Domiziano davanti al grande complesso della Porticus Divorum, da cui l’appellativo di Chalcidica, ossia “portiera”, assegnato alla dea. Nei frammenti della pianta marmorea severiana il tempio appare di pianta circolare, probabilmente con un giro di colonne, su base quadrata provvista di gradini su tutti e quattro i lati e sorgeva dove oggi si trova la chiesa di S.Marta. La chiesa che domina la piazza, S.Maria sopra Minerva (nella foto sotto il titolo), esisteva, secondo la tradizione, al tempo di Papa Zaccaria (741-752) e fu concessa da quel pontefice alle suore basiliane provenienti da Costantinopoli; nel secolo IX viene citata dall’Anonimo di Einsiedeln. L’antica chiesa, denominata “S.Maria in Minervium” (ovvero “S.Maria presso il Tempio di Minerva”), era di piccole dimensioni e così lasciò il posto ad un’altra più grande nel 1280, allorché i Domenicani subentrarono alle suore Basiliane.

    lapide del 1453 a piazza della minerva
    1 Lapide del 1453

    Nel XV secolo, quando ancora non era terminata, vi si celebrarono i Conclavi di Eugenio IV (1431) e di Nicolò V (1447). Alla metà del secolo il cardinale Giovanni Torquemada fece eseguire a sue spese la volta della navata maggiore, che era stata fino ad allora coperta da un soffitto a capriate. Nel 1453 il conte Francesco Orsini, prefetto di Roma, fece costruire la facciata, come attesta la lapide (nella foto 1) posta sulla destra della facciata e che così recita: FRANCISCUS DE URSINIS GRAVINE ET CUPERSANI COMES ALME URBIS PREFECTUS ILLUSTRIS AEDES MARIE VIRGINIS SUP(RA) MINERVAM IAMDIU MEDIO OPERE INTERUPTAS P(RO)RIIS SU(M)PTIBUS ABSOLVERE CURAVIT P(RO) E(IUS) A(N)I(M)E SALUTE ANNO D(OMI)NI MCCCCLIII PONT D(OMI)NI N(OST)RI NICOLAI PAPE V, ovvero “Francesco Orsini Conte di Gravina e Conversano illustre prefetto dell’alma Urbe, la chiesa di S.Maria sopra Minerva, già interrotta a metà dei lavori, fece completare a proprie spese per la salvezza della sua anima nell’anno del Signore 1453, sotto il pontificato del Signore Nostro Papa Nicolò V”.

    idrometri a piazza della minerva
    2 Idrometri in alto

    Nel 1557 Papa Paolo IV elevò la chiesa a titolo cardinalizio: primo titolare fu il cardinale Michele Ghislieri, divenuto poi papa con il nome di Pio V. Tra il 1848 ed il 1855 furono effettuati radicali restauri diretti da padre Girolamo Bianchedi, con i quali si volle riportare la chiesa alle primitive linee romanico-gotiche. Il restauro, appesantito da un eccessivo impiego di marmi colorati e di decorazioni policrome, alterò gravemente l’organismo primitivo creando un “falso” che si sovrappose alle strutture originarie compromettendone la giusta comprensione. La facciata, modificata nel XVII secolo dal cardinale Barberini, è molto semplice e presenta tre sezioni divise da lesene, ognuna con tre portali sormontati da altrettanti grandi oculi. I portali sono del ‘400; i due laterali sono sormontati da lunette con affreschi, mentre quello centrale da un timpano triangolare. Al centro dell’architrave, tra un motivo di festoni e teste di cherubini, si trova lo stemma (abraso) del cardinale Domenico Capranica; sotto, l’iscrizione ANDREAS CAPRANICA DOMINICI F RESTITUIT A D MDCX. Tra i portali, iscrizioni funerarie dei cardinali Tommaso Badia, Tommaso de Vio detto il Gaetano e Nicolò von Schoenberg. Alle estremità della facciata vi sono due stemmi Orsini (uno più semplice e l’altro sormontato da cimiero), mentre al centro svetta un grande stemma di Pio V con l’iscrizione PIUS V PONT MAX EX ORD PRAED, ovvero “Pio V Sommo Pontefice, dell’Ordine dei Predicatori”; ai lati due stemmi abrasi. Degne di nota sono due gruppi di 3 lapidi apposte sulla facciata indicanti l’altezza raggiunta dalle inondazioni del Tevere: vi è da precisare infatti che questa zona, con il vicino Pantheon, era tra le più basse della città e quindi particolarmente soggette ad alluvioni. Il gruppo più alto (nella foto 2) è così costituito: la targa più alta recita che REDUX RECEPTA PONTIFEX FERRARIA NON ANTE TAM SUPERBI HUCUSQUE TYBRIDIS INSANIENTES EXECRATUR VORTICES ANNO D(OMI)NI MDXCVIII, VIIII KAL IANUARII, ovvero “Il pontefice (Clemente VIII) al (suo) ritorno (a Roma) dopo il recupero di Ferrara, maledice i gorghi del Tevere, mai prima di allora così superbo, impazziti fino a questo segno, nell’Anno del Signore 1598, nel giorno nono delle Calende di Gennaio” (24 dicembre) – altezza m.19,56. La seconda per altezza, a destra, ricorda che MDLVII DIE XV SEPTEMBRIS HUC THYBER ADVENIT PAULUS DUM QUARTUS IN ANNO TERNO EIUS RECTOR MAXIMUS ORBIS ERAT, ovvero “Il 15 settembre 1557 il Tevere arrivò sin qui mentre Paolo IV era il supremo rettore dell’Urbe nel terzo anno del suo pontificato” – altezza m.18,90. La terza targa ricorda che ANNO D(OMI)NI MDXXX OCTAVO IDUS OCTOBRIS PONT VERO SANTISSIMI D(OMI)NI CLEMEN PAPE VII HUC TIBER ASCENDIT IAMQ(UE) OBRUTA TOTA FUISSET ROMA NISI HUIC CELEREM VIRGO TULISSET OPEM, ovvero “Nell’Anno del Signore 1530 il giorno 8 delle idi di ottobre del pontificato del Santissimo Nostro Signore Papa Clemente VII, nell’anno 7° del suo pontificato, il Tevere giunse fin qui e Roma sarebbe stata tutta sommersa se rapidamente la Vergine non le fosse venuta in soccorso” – altezza m.18,95.

    altri idrometri a piazza della minerva
    3 Idrometri in basso

    In basso vi sono altre tre lapidi (nella foto 3), delle quali quella a sinistra, la più antica di tutte, è in caratteri gotici e così recita: A(N)NO DO(MINI) MCCCCXXII IN DIE S(AN)C(T)I ANDRRE CREVIT AQUA TIBERIS USQUE AD SUM(M)ITATE(M) ISTI(US) LAPIDIS T(EM)P(O)RE D(OMI)NI MARTINI P(A)P(AE) V A(NNO) VI, ovvero “Nell’Anno del Signore 1422, nel giorno di S.Andrea, crebbe l’acqua del Tevere fino alla sommità di questa lapide, al tempo di Papa Martino V – Anno VI (del suo pontificato)” – altezza m.17,32. A destra possiamo notare la lapide che ricorda l’inondazione del 29 dicembre 1870, con un’altezza di m.17,22; sotto, l’ultima lapide ricorda che ANN(O) CHR(ISTI) MVD NON(IS) DECEMB(RIS) AUCTUS IN IMMENSUM TIBERIS DUM PROFLUIT ALVEO EXTULIT HUC TUMIDAS TURBIDUS AMNIS AQUAS, ovvero “Nell’Anno del Signore 1495, il 9 dicembre, mentre il Tevere smisuratamente gonfiatosi usciva dal suo letto, la torbida corrente sollevò sino a questo segno le sue gonfie acque” – altezza m.16,88.

    cristo risorto di michelangelo4 Cristo Risorto di Michelangelo

    L’interno della chiesa presenta tre navate, divise da 12 pilastri, e termina nel transetto, che ha una cappella ed un coro. Poche altre chiese possono vantare una raccolta così imponente e ricca di opere d’arte italiane. Lo stile monumentale del Rinascimento romano è evidente nelle tombe del XVI secolo dei papi della famiglia Medici, Leone X e Clemente VII, opere di Antonio da Sangallo, e nella preziosa Cappella Aldobrandini. Vicino ai gradini del Coro si trova la famosa statua di “Cristo risorto” (nella foto 4), commissionata a Michelangelo nel 1514. In fase di ultimazione apparve però sul viso del Cristo una sgradevole venatura nera, per cui Michelangelo decise di eseguire una seconda versione, al compimento della quale collaborarono anche gli allievi Pietro Urbano (poi sostituito) e Federico Frizzi. La statua venne qui collocata il 27 dicembre 1521: da notare che originariamente il Cristo era nudo e che il panneggio dorato fu aggiunto soltanto in seguito, dopo il Concilio di Trento (1545-63).

    sepolcro del beato angelico5 Sepolcro del Beato Angelico

    Numerosi i sepolcri, tra i quali citiamo quello di Fra’ Giovanni da Fiesole, detto Beato Angelico, (nella foto 5) probabilmente opera di Isaia da Pisa.suor maria raggi del bernini6 Suor Maria Raggi del BerniniInoltre, vi sono i sepolcri del grande architetto e scultore Andrea Bregno e quello della beata Maria Raggi (nella foto 6), opera giovanile di Gian Lorenzo Bernini del 1647. Un sontuoso drappo funebre nero bordato di giallo, fissato ad uno dei pilastri gotici della navata, è mosso dal vento che increspa anche l’epigrafe; due angioletti reggono faticosamente un grande medaglione dorato dove è ritratta suor Maria Raggi, mentre una grande croce, seminascosta dal drappo, corona l’opera.sepolcro di santa caterina da siena7 Sepolcro di S.Caterina da SienaSotto l’altare maggiore spicca la tomba (nella foto 7) di S.Caterina da Siena, patrona d’Italia e d’Europa: il sarcofago, attribuito ad Isaia da Pisa, fu realizzato nel XV secolo e custodisce le spoglie della Santa che riposa poggiando il proprio capo su un morbido cuscino. Nella parte frontale due angeli reggono un’iscrizione che così recita: SANCTA CATERINA VIRGO DE SENIS ORDINIS SANCTI DOMINICI DE PENITENTIA, ovvero “Santa Caterina Vergine da Siena dell’Ordine della Penitenza di San Domenico”. S.Caterina morì nel 1380 in un edificio posto nella vicina Piazza di S.Chiara, ma la camera dove morì è stata qui ricostruita, con le medesima mura, dietro la sacrestia, nel 1637.

    crocifisso di giotto
    8 Crocifisso di Giotto

    Notevole è anche il Crocefisso ligneo (nella foto 8) che si trova nel transetto, attribuito a Giotto e databile tra il XIV ed il XV secolo. La chiesa della Minerva fu teatro della più fastosa delle cerimonie per la consegna della dote alle “povere zitelle” che volevano sposarsi o entrare in convento: alla cerimonia partecipava il papa che qui giungeva in fastoso corteo ogni 25 marzo, festa dell’Annunciazione. Le ragazze, in corte a due a due, biancovestite e con un velo pure bianco che a malapena lasciava scoperti gli occhi (infatti, erano chiamate “le ammantate”), andavano a prosternarsi con un cero in mano dinanzi a Sua Santità, che, dopo averle ammesse al bacio della Sacra Pantofola, consegnava loro una borsa bianca con una dote di 50 scudi per quelle che intendevano prendere marito e di 100 scudi per quelle che intendevano prendere il velo.

    obelisco della minerva9 Obelisco della Minerva

    Innanzi alla chiesa, al centro di Piazza della Minerva, sorge il piccolo Obelisco della Minerva (nella foto 9), in granito rosso, alto 5,47 metri, eretto originariamente dal faraone Aprie (589-570 a.C.), di cui reca i geroglifici insieme ai nomi degli dei Atum e Neit (da notare che Neit era una dea egizia corrispondente alla Minerva della mitologia greco-romana). Si ignora quando fu trasportato a Roma per essere innalzato nel vicino Iseo Campense: lo trovarono i domenicani di S.Maria sopra Minerva all’interno del giardino del monastero e vollero che venisse eretto nella loro piazza. L’elefantino che sorregge l’obelisco fu disegnato dal Bernini e scolpito da Ercole Ferrata e venne eretto l’11 luglio 1667. Il curioso monumento apparve subito più un “porcino” (ossia, un piccolo porco) che un elefantino e, difatti, così lo soprannominarono, anche se, con il tempo, il termine si fece più aggraziato e divenne un “pulcino”. La posizione di questo elefantino sotto l’obelisco è spiegata con sufficiente chiarezza nell’epigrafe del basamento, dettata personalmente dal committente, Papa Alessandro VII: “Ci vuole una mente robusta per sostenere una solida intelligenza”.palazzo della minerva10 Palazzo della MinervaA sinistra, guardando la chiesa, sorge il Palazzo della Minerva (nella foto 10), ossia l’ex convento dei Domenicani, costruito nella seconda metà del Cinquecento per incarico di Vincenzo Giustiniani, generale dell’ordine dei Domenicani. La chiesa e l’annesso convento furono la roccaforte tradizionale dei Domenicani, che per il loro ardore contro gli eretici furono soprannominati, con un gioco di parole, “Domini canes“, ossia i “cani del Signore”. Il palazzo venne ampliato tra il 1638 ed il 1641 su progetto di Paolo Marucelli (conosciuto anche come Maruscelli), divenendo un enorme complesso, così che fu scelto come sede della Congregazione del Sant’Uffizio, che qui celebrava le sue riunioni settimanali e l’attività di tribunale, esattamente nella Sala Galileiana, che rievoca Galileo Galilei, qui sottoposto a processo nel 1633 e condannato ad abiurare la dottrina eliocentrica. Ulteriori rifacimenti si ebbero nel XIX secolo ad opera di Andrea Busiri Vici e per volontà di Pio IX, che destinò il palazzo a sede del Collegio Pontificio Americano, come riportato tuttora sul portone di ingresso. Dopo il 1870 il palazzo divenne proprietà dello Stato che ne fece la sede del Ministero della Pubblica Istruzione, della Ricerca Scientifica e Tecnologica e delle Poste: oggi ospita gli uffici dei deputati al Parlamento. Di fronte alla chiesa si eleva Palazzo Severoli, costruito ai primi del Cinquecento per Mario Petruschi, conservatore in Campidoglio. In seguito fu acquistato da Marcantonio Colonna e poi dai Severoli, originari di Faenza, dei quali il palazzo in genere porta il nome. Il palazzo ebbe una sua storia quando nel 1706 papa Clemente XI lo acquistò per farne la sede dell’Accademia dei Nobili Ecclesiastici, una scuola destinata a preparare i rampolli delle famiglie nobili alla carriera ecclesiastica. L’accademia funzionò grazie ai sussidi del cardinale Giuseppe Renato Imperiali, ma ben presto dovette chiudere per mancanza di fondi. La riaprì temporaneamente Papa Pio VI, ma fu Leone XIII a risollevarne le sorti, restaurando l’edificio nel 1878 e ristrutturandone la facciata; inoltre tolse il vincolo di nobiltà per gli iscritti, pur imponendo che i migliori allievi si dedicassero al servizio diplomatico. Proprio su questo indirizzo l’accademia riuscì a sopravvivere ed ancora oggi è in funzione per creare i quadri della diplomazia internazionale della Santa Sede. La facciata presenta un bel portale posto tra due colonne sottostanti il balcone del primo piano e tra due coppie di quattro porte di rimessa ad arco su uno splendido bugnato.palazzo fonseca a piazza della minerva11 Palazzo FonsecaA destra, guardando la chiesa, Piazza della Minerva è completata dal seicentesco Palazzo Fonseca (nella foto 11), così chiamato dal nome dei suoi originari proprietari, giunti a Roma dal Portogallo nel XV secolo. L’edificio passò nella prima metà dell’Ottocento alla famiglia Conti, i quali, dopo aver acquistato alcune case limitrofe, ampliarono il palazzo destinandolo ad albergo, il “Minerva”, inaugurato nel 1832 e ancora oggi in attività. L’Albergo ha ospitato, durante i suoi lunghi anni di attività, numerose personalità illustri come l’immortale Stendhal, Cavour o il generale José de San Martin, celebre eroe argentino.

Summertime Jazz Chord Melody Arrangement

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Now’s the Time – Charlie Parker

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8 Dicembre 2012

Body and Soul melody harmonization

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Stella By Starlight – solo guitar instrumental

Filed under: standard jazz — giacomo.campanile @ 09:33

Night in Tunisia – basic chords – slow tempo

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18 Febbraio 2012

Waltz For Debby – solo guitar instrumental

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22 Luglio 2011

Four. Miles Davis – Jazz Guitar

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