S.Stefano Rotondo, una delle più antiche chiese cristiane, fu eretta ai tempi di papa Simplicio, tra il 468 ed il 483. La basilica, costruita con materiali di spoglio, originariamente aveva già una pianta circolare ma era suddivisa in tre navate concentriche, come possiamo osservare nella pianta 1: la prima navata (“Aula”) era sorretta da 22 colonne ioniche architravate, la seconda (“Ambulacro”), ad anello, con 44 archi poggianti su 36 colonne e su otto pilastri a forma di T, dai quali si dipartivano i muri che dividevano il terzo anello, confinante con il muro perimetrale, in otto settori.
Di essi, quelli disposti sugli assi ortogonali (corrispondenti all’Atrio) prevalevano in altezza, così da configurare, nella disposizione degli spazi, uno schema cruciforme. I settori collocati lungo gli assi diagonali erano a loro volta suddivisi in due ambienti paralleli, due terzi verso l’interno, aperti (“Cortile all’aperto”), un terzo verso il muro esterno, coperto (“Cortile coperto”). L’accesso era assicurato da otto porte (“Ingressi”), che immettevano nei “Cortili coperti”, dai quali si poteva accedere agli “Atrii”, messi in comunicazione con i cortili da una trifora su due colonne. La mole centrale era alta 22 metri, così come 22 erano il diametro e le finestre che vi si aprivano.
L’anello centrale era sorretto da 22 colonne di spoglio (nella foto 2), perciò non tutte uguali tra loro, soprattutto in altezza: la più alta misura circa 6 metri, la più bassa 5,65 e questo è il motivo per cui, per ovviare a tale inconveniente, si possono osservare basi di differente altezza. I capitelli invece furono eseguiti e scolpiti durante la costruzione, mentre nello spazio centrale vi fu posto un altare, inserito all’interno di un’area recintata. Tra il 523 ed il 529 l’interno di S.Stefano Rotondo fu sontuosamente ornato con mosaici e lastre marmoree intarsiate in porfido, serpentino e madreperla; al centro fu inserita una tribuna per la “schola cantorum” e per la cattedra, la cosiddetta “Sedia di Gregorio Magno”, un antico sedile marmoreo di epoca romana dal quale si narra che il pontefice pronunciasse le sue omelie ed al quale, nel XII secolo, furono tolti la spalliera ed i braccioli (oggi il sedile è collocato a sinistra dell’ingresso). Il primo intervento al quale l’edificio fu soggetto si deve a Teodoro I, il quale, tra il 642 ed il 649, vi fece trasportare i corpi dei santi Primo e Feliciano da un cimitero situato presso Mentana: nell’occasione fu aperta, nel muro perimetrale, una cappella a volta sferica, sulla quale un mosaico bizantineggiante, tuttora visibile, raffigura i santi ai lati di una croce gemmata. Altri lavori furono effettuati durante il pontificato di Adriano I nell’VIII secolo, in particolare volti a riparare i danni dei tetti. Nel IX secolo iniziarono però le spoliazioni, alle quali si aggiunsero, nell’847, i danni causati da un terremoto e nel 1084 quelli causati da Roberto il Guiscardo. Quando nel 1130 papa Innocenzo II salì al soglio pontificio, la basilica si trovava in uno stato pietoso, con il tamburo scoperchiato, gli stucchi in rovina, i marmi asportati, il muro perimetrale in più parti danneggiato: fu così che il pontefice fece chiudere, a filo delle colonne, tutte le arcate del secondo anello (“Ambulacro”), tranne le cinque corrispondenti alla cappella dei santi Primo e Feliciano e le due d’ingresso.
Il pontefice volle aggiungere il portico esterno a cinque archi con colonne tuscaniche antiche che costituiscono l’ingresso della chiesa (nella foto 3). All’interno, invece, per sostenere il tetto, fece erigere un diaframma che scavalca l’ambiente centrale con tre archi sostenuti da colonne in granito rossastro, di spoglio come i capitelli, alte metri 8,45; a questo periodo risale anche il bellissimo soffitto a cassettoni. Nel XIV secolo, però, il complesso era di nuovo pericolante e così nel 1453 papa Niccolò V incaricò l’architetto e scultore fiorentino Bernardo Rossellino di restaurare tutto il complesso: questi rifece le coperture ed il pavimento, rialzandone il livello, collocò al centro dell’edificio un altare marmoreo, eliminò definitivamente il cadente ambulacro esterno e chiuse le 22 finestre del tamburo, sostituendole con le attuali otto bifore (nella foto sotto il titolo). Pochi anni dopo, nel 1462, la basilica venne affidata ai monaci ungheresi di S.Paolo Eremita, i quali si adoperarono per annettervi anche un convento, più volte restaurato negli anni seguenti. Alla fine del 1500 papa Gregorio XIII consegnò il complesso, ancora una volta lasciato all’incuria, al Collegio Germanico-Ungarico. Il rettore, padre Lauretano, nel 1580 fece costruire al centro dell’aula un recinto ottagonale a stucco (visibile nella foto 2), decorato da Antonio Tempesta con le “Storie di S.Stefano”, la “Strage degli Innocenti” e la “Madonna dei Sette Dolori”. Inoltre nel 1582 le pareti della chiesa che chiudevano l’ambulacro vennero affrescate da Nicola Circignani detto il Pomarancio, con la collaborazione di Matteo da Siena per le prospettive, con 34 scene raccapriccianti del martirio di innumerevoli santi.
Le scene crude rappresentate in questi affreschi avevano lo scopo di avvertire i giovani sacerdoti che sarebbero andati in paesi lontani per convertire la popolazione al cristianesimo sui pericoli che avrebbero potuto incontrare: nella foto 4 il “Martirio di S.Margherita”. Nella piccola abside della cappella dedicata ai santi Primo e Feliciano si trova il bellissimo mosaico del VII secolo (nella foto 5) raffigurante “Cristo con S.Primo e S.Feliciano”: sul fondo d’oro sono rappresentati i due Santi vestiti con mantelli da viaggio che poggiano su un praticello verde e numerosi fiori.
Al centro campeggia una grande croce minuziosamente decorata ed ornata di fiorellini e pietre preziose con sopra Cristo beneficente, anziché crocifisso, riprendendo un’iconografia inconsueta e molto antica. Durante i lavori di restauro iniziati dalla metà degli anni Novanta nei sotterranei della chiesa vennero alla luce i resti dei “Castra Peregrinorum“, ovvero la caserma delle truppe provinciali distaccate a Roma, sulla quale era sorta la basilica, ed un mitreo (molto probabilmente legato proprio ai “Castra Peregrinorum“) risalente al 180 d.C., costituito da un ambiente rettangolare con due podi, sui quali prendevano posto i seguaci, ed un’edicola a nicchia del II secolo d.C. con la raffigurazione a rilievo in stucco dorato della “tauroctonia” (uccisione del toro) da parte del Dio.
Sulle pareti, oltre ad alcuni dipinti appartenenti al santuario del II secolo, c’è un affresco raffigurante la “Personificazione della Luna” (nella foto 6). Il mitreo fu abbandonato repentinamente, probabilmente a seguito di una devastazione violenta dello stesso, destino purtroppo comune ad altri edifici adibiti allo stesso culto. E’ difficile dare una datazione certa a questo evento, che probabilmente ebbe luogo intorno alla fine del IV secolo. Gli ambienti furono successivamente oggetto di un poderoso riempimento con materiale di risulta, propedeutico ai lavori di costruzione della chiesa, che nascose così per circa 1500 anni questa importante testimonianza del passato. La chiesa è situata nell’omonima via di S.Stefano Rotondo, corrispondente al primo tratto dell’antica “via Caelimontana“, che usciva dalla “porta Caelimontana” e si spingeva fino a Porta Maggiore, proseguendo per le attuali piazza S.Giovanni in Laterano e via Domenico Fontana. Questo asse viario era seguito anche dai quattro acquedotti che percorrevano il Celio: “Appia“, “Marcia“, “Iulia” e “Claudia“.