Gherardini Brunero
PIO IX
L’Uomo – il Maestro – il Santo
PIO . IX . P . M .
IN . BEATORVM . INDICE
NVNC . DEMVM . FELICITER. ADSCRIPTO
QVOD . PERSPECTAM . VITAE . EXERCVERIT
NEC . NON . EVANGELICAM . FORMAM . VIRTVTVM
QVODQVE. DEIPARAM. VIRGINEM. MARIAM
INMACVLATAM . EX . CATHEDRA . DEFINIERIT
IVRA. DEI. ET. ECCLESIAE LIBERTATEM
SVMMO . SIT . STVDIO . TVTATVS
MAIOREMQVE. IN . EGENOS . LARGITATEM
QVAM. QVIS. AESTIMARE. POSSIT. EFFVDERIT
SENOGALLENSIS. POPVLVS
VNA . CVM . ORBE . VNIVERSO
PLAVSVS . IMPERTIT . MAXIMOS
Cap. 1: Profilo biografico
Nella storia, ogni tanto, fan la loro comparsa straordinarie persone: straordinarie perché dotate di qualità non comuni e perché evidentemente chiamate a compiti altrettanto non comuni. Persone carismatiche, con doni proporzionati alla missione loro assegnata. Persone, quindi, della divina Provvidenza.
Chi potrebbe mai dubitare che il Pontefice felicemente regnante, Karol Vojtyla, sia una di tali persone? La sua statura morale, la ricchezza carismatica che lo distingue e la coerenza con la quale ad essa corrisponde non lasciano dubbi sul compito divinamente affidatogli, non solo di “pascere la Chiesa di Dio” (At 20,28), ma di traghettarne la barca tra i marosi del tempo, il più felicemente possibile, dall’uno all’altro millennio.
Si è stati testimoni di questo passaggio: la figura del vecchio e malandato Pilota ha giganteggiato dinanzi al mondo intero e si è consegnata alla storia come protagonista assoluto del passaggio stesso.
E’ una figura che, per analogie storiche ma non personali, ne evoca un’altra, anch’essa protagonista al di sopra di altri: quella di Pio IX. Vistosamente diverso da Giovanni Paolo II per temperamento e per altre qualità naturali, non meno di lui ricco di grazia e di destino, proprio da lui, dal vecchio e malandato papa polacco, ha ricevuto l’aureola della santità ufficiale
Anche Pio IX ebbe dalla divina Provvidenza un compito immane da svolgere e doni proporzionati a quel compito: in tempi anche più procellosi dei nostri, resistendo alla furia delle onde in rivolta e vincendola, traghettò egli pure il naviglio di Pietro da un’epoca ad un’altra. Il confronto tra i due Pontefici mette in evidenza difficoltà di pilotaggio incomparabilmente maggiori nel caso di Pio IX rispetto a quello di Giovanni Paolo II: questi è passato da un millennio all’altro, certo non senza avvertire l’urto di forze avverse (comunismo, secolarismo e la strisciante “inimica vis” che mai demorde); l’altro, sotto i colpi del liberalismo massonico ed anticlericale, portò la Chiesa da un mondo ad un altro salvando tutto il patrimonio della tradizione cattolica, rifiutando nettamente ogni attentato ad essa, ma con essa componendo, nei limiti del possibile, i valori del moderno e del nuovo. Non è né un caso, né un’esagerazione il fatto che l’ultima biografia del grande Pontefice porti come titolo: Pio IX; papa moderno.
Fu, il suo, un pontificato epocale. Una mentalità, una cultura, una Weltanschauung stava consumando i suoi guizzi residui; egli non le permise di travolgere il patrimonio affidato alla sua tutela. Nasceva e s’imponeva una diversa visione delle cose e dinanzi ad essa tremò, ma senza mai capitolare. Alla visione incentrata in Dio e nella sua rivelazione tentava di sostituirsi quella incentrata nell’uomo, nella sua ragione, nella sua libertà e nei suoi diritti. Martire della prima, fu il primo papa che seppe saggiamente aprirsi alla seconda. Gli altri han continuato la sua strada.
Le condizioni socio-politiche d’allora misero spesso le due mentalità in irriducibile contrasto, quasi che l’una volesse sostituirsi all’altra non solo come diversa nella sua genesi e nel suo orientamento, ma come alternativa, ed alternativa diametralmente opposta. Per divina disposizione, a Pio IX toccò in sorte di fronteggiare codesta enorme contrapposizione, ma anche d’assumerne alcuni elementi di sicuro valore (p. es. sul piano delle istituzioni sociali) e d’impedire che la scomposta affermazione di altri elementi ridondasse a danno di quel patrimonio, per la cui salvaguardia era al timone della Chiesa.
Di questo Pontefice, che chiamar grande è poco, non ripercorrerò la lunga vicenda né mi soffermerò su di essa con intenti biografici. L’interesse biografico è già stato ampiamente soddisfatto ed “ogni lingua” (Rm 14,11; Ef 2,11) ha tessuto le lodi di papa Mastai Ferretti. Intere biblioteche, infatti, o parti di esse, son intitolate al suo nome.
Qui l’interesse è volto, in perfetta continuità con l’evento della sua beatificazione, al perché di esso, cioè alla santità di cui l’evento stesso testimonia non senza provocarne l’approfondimento e l`analisi. S’intende, in altri termini, rispondere, sia pur brevemente, alla domanda che ognuno potrebbe porsi in questi giorni: perché beato? che senso ha per la Chiesa e per il mondo questa beatificazione?
Ovviamente si dovrà procedere con ordine in mezzo alle non poche difficoltà di lettura del passato e interpretazione di esso.
I – Dalla nascita al sacerdozio
Benché il presente scritto prescinda dal genere biografico, la vita di papa Mastai ed i fatti salienti che lo videro in prima fila non possono esser ignorati del tutto.
Egli dunque nacque a Senigallia il 13 maggio 1792, nono figlio di Girolamo Benedetto Gaspare dei conti Mastai Ferretti e di Antonia Caterina Maddalena Solazzi, del patriarcato locale. Dei figli maschi era il quarto, dopo Gabriele, Gaetano e Giuseppe. Fu battezzato il giorno stesso della nascita col nome di Giovanni Maria Battista Pellegrino Isidoro da uno zio, il canonico Angelo Mastai, poi vescovo di Pesaro.
Era di delicata costituzione fisica, ma d’intelligenza sveglia e d’indole ottima. Appena poté, andò a messa ogni giorno con la pia mamma. Rivelò presto la sua devozione eucaristica e mariana. Fu dedito alla pratica dei “fioretti”. Era stato cresimato il 6 giugno 1799 dall’Em.mo B. Honorati, vescovo di Senigallia, ed ammesso alla prima comunione nella cappella della Madonna della Speranza in cattedrale il 2 febbraio 1803.
Ritratto giovanile di Giovanni Maria Mastai Ferretti nel periodo in cui era studente a Volterra. (Donazione Augusti Arsilli, 1976, di autore ignoto della scuola del purista anconetano Vincenzo Podesti)
I1 20 ottobre di quel medesimo anno entrò nel Collegio dei Nobili, tenuto in Volterra dai Padri delle Scuole Pie. V rimase fino al 26 settembre 1809, dando prova d’ingegno vivace e d’esemplare comportamento.
Lo zio Paolino Mastai, canonico vaticano, l’accolse presso di sé, quando, nel 1809, Giovanni Maria lasciò Volterra e venne a Roma per gli studi superiori presso il Collegio Romano. Il giovane conte, a quell’epoca, non aveva dato ancora la sterzata decisiva alla sua vita in direzione del sacerdozio. Era ancora “in stato secolare”, come egli stesso s’esprime, quel 10 aprile 1810, quando, a conclusione d’un ritiro spirituale, gettò le basi di tutta la sua futura esistenza: lotta al peccato, fuga da ogni occasione moralmente pericolosa, studio “non per l’ambizione del sapere” ma per il bene altrui, abbandono di sé nelle mani di Dio. E non mancò di rivolgere a sé stesso un’esortazione finale, per impegnarsi con tutte le sue forze all’osservanza dei suoi buoni propositi: “Eseguisci il sistema divino che hai disegnato”.
Quel programma (o “sistema divino”) era sintomatico della limpidezza interiore del giovane studente, già soprannaturalmente orientato, purtroppo non eran floride le sue condizioni di salute. Soffriva d’improvvisi attacchi che qualcuno considerò epilettici, anche se non si han prove sicure al riguardo. La cosa certa è che fu per questo costretto ad interrompere gli studi. Nel 1812, la malattia gli ottenne 1’esonero dalla chiamata di leva nelle Guardie d’onore del Regno. Chiese, invece, ed ottenne nel 1815 di far parte della Guardia Nobile Pontificia; ma a causa del suo male, ne fu presto dimesso. Paradossalmente, proprio in quello scorcio di tempo, San Vincenzo Pallotti gli vaticinò il supremo pontificato e la Vergine di Loreto lo liberò, sia pure in modo graduale, dal male che l’affliggeva.
Sempre nel 1815 fu tra i volontari che prestavano la loro opera educativo-didattica ai ragazzi del Tata Giovanni, un istituto dove prenderà poi dimora e che gli resterà caro per tutta la vita. Nel 1816 ebbe una parentesi senigalliese come catechista in una memorabile missione popolare. Poco dopo, nella Chiesa dell’Orazione e Morte, dove aveva appena finito di servire una messa, si decise per il sacerdozio, ponendo fine ad un quinquennio d’ondeggiamenti. Vesti l’abito talare, riprese gli studi, ebbe gli ordini minori il 5 gennaio 1817, il suddiaconato il 20 dicembre 1818 ed il diaconato il 6 marzo 1819. Un mese dopo, il 10 aprile, per grazia personale di Pio VII, venne ordinato prete. Ed egli, con chiara consapevolezza del suo nuovo stato, s’impegnò formalmente con se stesso ad evitare la carriera prelatizia per rimanere sempre e soltanto al servizio della Santa Chiesa. Vi rimase di fatto, anche nella carriera e nonostante gli inarrestabilì scatti di essa.
2 – Prete e vescovo
Celebrò la sua prima messa ai suoi cari ragazzi del Tata Giovanni, nella Chiesa di Sant’Anna. Nominato rettore di quell’istituto, vi si fermò fin al 1823.
Fu subito evidente con quale spirito fosse andato incontro al sacerdozio. Assiduo alla preghiera, al ministero della parola, alle sacre funzioni, al confessionale, il prete Mastai era ormai l’uomo per gli altri, specie per i più umili e bisognosi. Univa il raccoglimento alla disponibilità più generosa, I’unione con Dio all’attività del ministero vissuto sulla breccia, la vita contemplativa alla predicazione ed a qualunque altro servizio gli richiedessero le attese e le necessità delle anime. Foglietti provvidenzialmente sfuggiti alla distruzione costituiscono la più probante testimonianza della sua vita interiore di giovane prete, dei suoi spietati esami di coscienza, del suo rifugiarsi nel Cuore sacratissimo di Gesù ed in Maria.
Nel 1823 parve prender concretezza il suo sogno segreto: farsi missionario. I1 3 luglio lasciò Tata Giovanni per accompagnare in Cile il Nunzio Apostolico S. E. Mons. Giovanni Muzi e vi restò fin al 1825. Per tale missione, il Segretario di “Propaganda Fide” l’aveva così presentato: “E’ difficile ritrovare persone che riuniscano tutti i requisiti che s’incontrano in questo rispettabilissimo sacerdote. Pietà singolare e soda, dolcezza di carattere, prudenza ed avvedutezza non ordinarie, zelo grandissimo accompagnato dalla scienza che in lui bene si trova in abbondanza,…desiderio di servire Dio e di essere utile al prossimo per le missioni presso gli infedeli”.
La madre ne fu profondamente addolorata, soprattutto per l’incognita della salute. Ma né la costernazione materna, né altre contrarietà fermarono l’ardente “missionario’`.
La missione si rivelò più difficile del previsto e richiese soprattutto saggezza, prudenza e spirito di Fede. Eran le doti precipue del giovane Mastai, le uniche armi ch’egli impugnò per il bene della società cilena e l’onore di Dio. Non era un diplomatico; non lo sarà mai in tutta la vita. Era un prete. E come tale si comportò anche in un contesto diplomatico come quello della missione cilena.
Sarebbe rimasto molto volentieri in quella terra ormai da lui amata. Ma Roma lo reclamò per altri e non meno delicati servizi. Obbedì serenamente.
Nel 1825 fu eletto preside dell’Ospizio Apostolico di San Michele: un’opera complessa e grandiosa, ma per non pochi motivi non più all’altezza dei suoi compiti e bisognosa perciò di seria riforma. E’ quel che fece il Mastai con oculatezza pari all’intraprendenza. Gli esiti furon lusinghieri.
Ma il campo nel quale egli prodigava i tesori di natura e di grazia di cui era straordinariamente dotato, restò sempre quello pastorale. Fu un vero apostolo.
Aveva appena 35 anni, quando Leone XII, il 3 giugno 1827, lo destinò all’arcidiocesi spoletina. Il novello Pastore vi fece solenne ingresso il 7 luglio. L’obbedienza al successore di Pietro ne vinse la non formale resistenza, non si sentiva meritevole di tanto e soprattutto era convinto d’essere impari a quanto la responsabilità episcopale gli avrebbe richiesto. Ma il Papa fu fermo nel suo disegno e fece di lui, in quell’occasione, il seguente elogio: “Uomo commendevole per gravità, prudenza, dottrina, rettitudine di costumi, esperienza delle cose”.
L’elogio rivelava la grande fiducia del Pontefice nel suo collaboratore, il quale lo ripagò da par suo: a Spoleto fu un prodigio di zelo pastorale, che vinse diffidenze ed ostilità di prevenuti, questi a sé conciliando ed assimilando a quanti lo stimavano amavano e seguivano.
Il suo zelo, peraltro, fu fecondato anche da non poche sofferenze. La rivoluzione nel febbraio del 1831, imperversò in tutta 1’Umbria, dopo aver preso le mosse dai ducati di Parma e di Modena, lasciando il segno del suo passaggio a Bologna e perfino a Roma. A Spoleto trovò la strada spianata da frodi e tradimenti, che resero ancor più pesante la difficile situazione sul cuore dell’Arcivescovo. Questi segui la vicenda, rivivendone intimamente il dramma. Con dolore acconsentì alla difesa, ma non allo spargimento di sangue fraterno. E quando la calma fu ristabilita, elargì a tutti, anche a chi non lo meritava, il suo paterno perdono.
Dopo Spoleto l’attendeva un’altra non facile diocesi. Il vecchio card. Giacomo Giustiniani non aveva potuto far altro che dimettersi dalla guida della diocesi di Imola. E Gregorio XVI nulla di meglio intravide che trasferire ad essa lo zelante ed affermato vescovo di Spoleto: era il 22 dicembre 1832.
Il compito, difficile oltre ogni ragionevole sospetto, non sgomentò il Mastai, il quale, della sua nuova diocesi, fece il teatro della sua fede invitta, della sua carità senza limiti, del suo instancabile zelo. Ad Imola, infatti, si confermò uomo di profonda preghiera, predicatore facondo e suasivo, col cuore aperto a tutti, di ogni ordine e ceto; ricercatore indefesso del bene soprannaturale, ma anche materiale, dei suoi diocesani; difensore strenuo della giustizia contro ogni intemperanza e sopruso; promotore d’opportune forme d’educazione giovanile; spiritualmente e materialmente vicino ai monasteri di vita contemplativa, alla cui importanza ed alle cui esigenze sarà anche in seguito sensibilissimo; infiammato per la devozione al Sacro Cuore di Gesù e alla Madonna; tutto premure, se pur fermo sui principi, per i suoi preti ed il suo seminario.
Ritratto del Cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti (Pietro Gobbetti, sec. XIX)
Aveva appena 48 anni, quando, il 10 dicembre 1840, gli fu conferito 1’onore della sacra porpora.
3 – Papa
Pur rifuggendo dagli onori per indole e per decisione, si trovò presto sotto il loro peso, tanto più grave quanto più alto fosse l’onore stesso.
Il 1 giugno 1846 morì Gregorio XVI; due settimane dopo, il 14, cinquantadue cardinali si riunirono in conclave per eleggerne il successore. Sulla sera del 16, il card. Giovanni Maria Mastai Ferretti era già papa con il nome di Pio IX. Rimarrà sul soglio di Pietro per 32 anni, dando vita al più lungo pontificato della storia.
Ritratto di PIO IX (Alessandro Capalti 1817-1868)
Non è stato, e non è facile, per l’incrocio di circostanze varie e segnatamente per la presenza di passioni politiche, darne un giudizio univoco. Qualcuno definì Pio IX una “figura complessa”, c’è perfino chi lo giudica mediocre e non adatto all’altissimo compito, gli uni e gli altri dando prova di non poca superficialità e di scarsa informazione. Come ieri, così anche oggi la passione e l’emotività sono spesso una griglia deformante nei riguardi della sua figura e del suo operato. Il pontificato di Pio IX fu indubbiamente difficile, tra i più difficili in tutto l’arco della storia ecclesiastica; il santo Pontefice lo visse tutto raccolto nella sua autocoscienza di Vicario di Cristo, che non gli consenti mai né transazioni né compromessi, pagando di persona la sua coerenza.
Sta qui, in gran parte, la spiegazione delle difficoltà da lui incontrate e delle obiezioni che gli vennero mosse. Al di sopra delle une e delle altre, giganteggia il suo animo di prete, di pastore e di padre.
I1 16 luglio 1846, dimostrando per 1’ennesima volta il sentire cristiano che l’animava, promulgò l’amnistia per tutt’i detenuti politici. Di qualche mese dopo è la sua prima enciclica: la Qui pluribus, del 9 novembre, un documento impressionante per la sua chiarezza, il suo realismo, la sua ampia visione degli incombenti pericoli e dei necessari rimedi. “In nuce” c’era già tutto Pio IX, almeno sul piano magisteriale. I punti essenziali del Vaticano I vi erano anticipati; gli errori di fondo eran nettamente percepiti e condannati; la delimitazione tra verità ed errore in materia di fede e della sua traduzione morale era decisamente segnata ed altrettanto quella tra Chiesa e società segrete.
Che non si trattasse di miopia culturale e di spirito reazionario è comprovato dal fatto che, poco dopo, il 13 marzo 1847, concesse per decreto ampia e sorprendente liberta di stampa.
1l 5 ottobre fu la volta della Guardia civica, nel quadro di altre aperture liberali Pio IX si rivelava in tal modo un sovrano saggio ed aperto, capace d’indiscussa fedeltà alla tradizione, ma non per questo meschinamente ottuso dinanzi alla cultura emergente. Il suo acuto discernimento, pur intuendone i pericoli, ne colse anche i pregi. Ed a tale discernimento restano legati i suoi primi atti di governo, i più difficili proprio perché i primi: I’istituzione del Municipio, del Consiglio comunale e della Consulta di Stato, rappresentativa di tutte le province, ed infine dello Statuto. Ben nota e fin da allora non ben capita fu l’allocuzione del 10 febbraio 1848, che conteneva l’implorazione: “Benedite, Gran Dio, I’Italia e conservatele sempre questo dono di tutti preziosissimo, la Fede”.
Un’altra allocuzione, di portata storica, fu quella del 29 aprile. Confermando in essa il suo “paterno amore” per tutt’i popoli e non per quello italiano soltanto, Pio IX si alienò l’animo dei più accaniti liberali. A poco valse la sua convinta difesa dell’indipendenza italiana in un dispaccio all’imperatore d’Austria; per non pochi, più facinorosi e prevenuti che patrioti, egli fu semplicemente un traditore. Ed anche in seguito perfino nei libri di scuola, non gli han perdonato un tradimento che non c’era mai stato.
Il 15 novembre fu ucciso il capo del governo, Pellegrino Rossi, nove giorni dopo lo stesso Pio IX si vide costretto a lasciare la sua Roma, rifugiandosi a Gaeta.
Le cose in effetti si facevano ogni giorno più difficili. Il 9 febbraio 1949 venne proclamata la Repubblica Romana. L’augusto Esule prima si trasferì a Portici (4 settembre), quindi rientrò nell’Urbe e si stabili in Vaticano (12 aprile 1850), dando da allora in poi un’ancor più definita impronta pastorale al suo pontificato. Tutte le genti e tutti i non prevenuti sentivano d’aver in Lui un vero padre, così come, per i suoi sudditi, fu un sovrano amabilissimo.
Subito riordinò il Consiglio di Stato (12 settembre 1850), istituì la Consulta per le Finanze, elargì una nuova e più ampia amnistia. Il giorno 20 ristabilì la regolare gerarchia cattolica in Inghilterra; altrettanto fece, tre anni dopo, per l’Olanda.
L’11 marzo l853 condannò le dottrine gallicane ed il 28 giugno fondò il Seminario Pio. Anche le Catacombe, nel maggio del 1854, furon oggetto della sua generosa sollecitudine; nello stesso tempo istituì la Commissione d’Archeologia Cristiana e ne nominò il presidente nella persona del grande Giovanni Battista de’ Rossi. E’ poi doveroso aggiungere che il 1854 sarebbe rimasto scolpito a caratteri d’oro nella storia personale di Pio IX ed in quella della Chiesa cattolica per la solenne proclamazione dogmatica dell’Immacolato Concepimento di Maria (8 dicembre); in questo dogma, oltre che in quello sull’infallibilità papale (18 luglio 1870), il magistero di papa Mastai raggiunse il suo vertice. E non basta, il 1854 è degno di nota anche per la ricostruita Basilica di San Paolo, distrutta dall’incendio del 15 luglio 1823.
Le iniziative magisteriali, contestualmente a quelle sociali e politiche, si succedevano con ritmo incalzante, confermando insieme la prudenza e l’apertura del grande Pio. I1 3 aprile 1856 egli approvò il piano della strada ferrata nello Stato pontificio la cui prima attuazione (tratta Roma-Civitavecchia) venne inaugurata il 24 aprile 1859. Il Papa visitò i suoi territori dal 4 maggio al 5 settembre 1857, ovunque accolto da popolazioni in tripudio. Tra il 1855 ed il 1866 inviò missionari tra gli Esquimesi ed i Lapponi del Polo nord, in India, in Birmania, in Cina ed in Giappone. Intensificò le relazioni diplomatiche in Europa e nel mondo. Continuò la sua carità, ora alla luce del sole, ora nascosta, quotidiana, minuta ma significativa. Giorno dopo giorno, era al suo posto, con il cuore e con le mani aperte per chiunque, persone ed opere, avesse avuto bisogno di Lui.
L’orizzonte però s’ottenebrava. I moti risorgimentali, le annessioni piemontesi che smantellavano lo Stato pontificio, l’usurpazione delle Legazioni con discutibili plebisciti e vessazioni anche più sottili perché giuridicamente camuffate da alta e responsabile considerazione per la Chiesa e per la Sede Apostolica, obbligarono Pio IX a porsi sulla difensiva a tutela della libertà e dei diritti inalienabili dell’una e dell’altra. Mantenne sempre, peraltro, il suo sguardo attento al bene delle anime come “suprema legge” del suo e d’ogni altro ministero ecclesiastico. Nel 1862 eresse un dicastero speciale per gli affari con i cristiani di rito orientale e 1’8 dicembre 1864 emanò una delle sue più famose encicliche, la Quanta cura seguita dal non meno famoso Syllabus, per condannare l’insieme degli errori moderni.
Le sempre crescenti difficoltà politiche avevan l’effetto d’impegnarlo ancora di più, se possibile, nella cura pastorale. I1 29 giugno 1867 celebrò con straordinaria solennità il XVIII centenario del martirio di Pietro e Paolo. I1 2 maggio 1868 approvò la “Società della Gioventù Cattolica Italiana”, fondata il 29 giugno 1867 da M. Fani e G. Acquaderni. L’11 aprile 1869, ricorrendo il suo giubileo sacerdotale, ebbe dal mondo intero uno straordinario omaggio di gratitudine e d’attaccamento alla sua venerata persona.
C’è, tra i suoi fasti, un avvenimento d’eccezione: il Concilio Ecumenico Vaticano I, ch’Egli apri il 7 dicembre 1869 e chiuse il 18 luglio 1870.
Con la caduta di Roma (20 settembre 1870) e la perdita dello Stato, amareggiato ma non domo Pio IX si chiuse in volontaria prigionia in Vaticano. Resistette alla Legge per le Guarentigie, celebrò il giubileo del suo pontificato (23 agosto 1871), approvò 1’”Opera dei Congressi” (1874), consacrò la Chiesa al Sacro Cuore di Gesù (16 giugno 1875), disciplinò la partecipazione dei cattolici italiani alla vita politica (29 gennaio 1877), restaurò la regolare gerarchia in Scozia (29 gennaio 1878).
Già minato nella sua salute, tenne il suo ultimo discorso ai parroci dell’Urbe il 2 febbraio 1878. Pochi giorni dopo, esattamente il 7, a 85 anni, spirò piamente.
Cap. 2: L’Uomo
Dire dunque di Lui che fu eccezionale, è dire una verità sulla quale soltanto il settarismo e la prevenzione osano d’eccepire. Occorre però precisare meglio sia la portata della sua eccezionalità, sia i livelli specifici sui quali essa s’impone alla serena ed obiettiva considerazione.
Non credo che tale eccezionalità sia da qualcuno intesa nel senso d’una proiezione del personaggio oltre i limiti della documentazione storica e della sua stessa condizione umana; e neanche nel senso d’una sua eccellenza in tutt’i settori dell’umano. Era anch’Egli un uomo: con doti eccelse, si, ma anche con il loro limite il quale, non riducendone le dimensioni, lo caratterizza come quel “singolo” uomo. Doti e limite son così ampiamente documentati, che di Lui si conosce ormai tutto, e solo secondo questa documentazione bisogna parlarne. Non si può dire, p. es., che fu un politico nato, solo perché lo si è detto eccezionale; ma non si dirà nemmeno che fu un politico fallito, solo perché dovette assistere al frantumarsi del suo Stato. Sarà peraltro opportuno che anche il giudizio sul suo operato politico, probabilmente al di sotto di tutti gli altri suoi meriti, venga vagliato al filtro documentale, non a quello ideologico o a quello emozionale.
Sbaglierebbe però, ed alcuni di fatto hanno sbagliato, chi prendesse spunto dal ricordato limite per un giudizio genericamente riduttivo su Pio IX, o peggio per l’attenuazione se non anche la negazione d’ogni valore al suo governo ed alla sua politica. I meriti di Lui restano nella loro intatta realtà, anche se dai documenti risultano più accentuati in un campo e meno in altri. Alla critica storica spetta di far luce a tale riguardo.
Mi pare di poter sostenere che l’eccezionalità di Pio IX, grazie appunto alla critica storica, è oggi un giudizio scientificamente fondato, riguardante tanto le qualità umane di Lui quanto le sue virtù. Delle une parlerò in questo capitolo; alle altre andrà la mia attenzione strada facendo.
I – L “imperterrita serenità”
Parlando di documentazione, non bisogna ignorare quella iconografica, là ovviamente dove esista. E nel nostro caso esiste; addirittura in abbondanza. Di Pio IX si conserva anzi il dagherrotipo della prima fotografia d’un papa.
L’impressione che se ne ricava è quella d’una persona di bell’aspetto anche in età avanzata, dai tratti regolari, lo sguardo sereno, il volto non privo di forza accattivante ed il portamento in pari tempo aristocratico e semplice. Dall’insieme si sprigiona una nota di maestosità, che tuttavia non incute timore. La documentazione iconografica conferma così quella scritta e testimoniale.
Pio IX aveva in effetti un’innata dolcezza ed una singolare delicatezza d’animo, che si notavano in ogni suo gesto e movimento. Armonizzava insieme dolcezza e delicatezza, qualora ciò fosse stato necessario, con una virile energia ed una forza irriducibile.
Bella era la sua voce e robusta. Cantasse o parlasse, affascinava la gente. Un testimone lo ricorda proprio per questo, senza esclusione, beninteso, d’altri motivi: “Non ho mai udito un oratore che avesse così calda e squillante la voce, così sovrani il gesto e lo sguardo”. I1 fascino della sua voce e di tutta la sua persona non colpiva soltanto i suoi amici ed estimatori, suscitandone o confermandone l’entusiasmo; ma incideva anche sul sospettoso e talvolta astioso atteggiamento dei suoi dichiarati avversari.
L’indole sua, il temperamento, il carattere depongono a favore di quella “imperterrita serenità” che Giuseppe Toniolo, del quale pure è oggi in corso la causa di beatificazione, rilevò nel papa marchigiano poco prima del suo pio decesso. In queste due parole, il cui accostamento dà ragione dell’animo forte e soave poco sopra affermato, sta forse la più obiettiva raffigurazione di Giovanni Maria Mastai Ferretti sul piano naturale. Su tale raffigurazione concorda in genere la critica, eccezion fatta per pochi ed irrilevanti giudizi o diversi o contrari: anche il sole ha le sue ombre a conferma della sua luce. Depone infatti per la sua fortezza quell’aggettivo “imperterrita” in cui è pienamente riconoscibile il Pio IX che, senza mezzi termini, denuncia i soprusi subiti, non si piega all’ingiustizia, condanna gli errori, difende la Fede, la Chiesa, la Sede Apostolica. I1 sostantivo “serenità” lo riproduce qual effettivamente era: non “una canna agitata dal vento” (Mt 11,8), non 1’uomo sopraffatto da avvenimenti incontrollabili o, almeno in apparenza, più grandi di Lui, non il fallito che tira i remi in barca e si lascia andare rassegnato alla deriva, ma l’uomo che, forte della propria autocoscienza, innalza una diga di coerenza e di soprannaturale fiducia dinanzi al dilagare delle cose avverse.
E di cose avverse fu lastricato il suo lunghissimo ministero papale. I1 predecessore Gregorio XVI, a suo modo anch’egli grande, gli aveva lasciato un’eredità pesante. Intransigente, autoritario ed anche ostinato, Gregorio aveva combattuto invano sia la vaga religiosità del romanticismo, sia le rivendicazioni antidogmatiche del naturalismo razionalistico, sia il subdolo (quando non era burbanzosamente scoperto) accerchiamento delle sette segrete. La massoneria imperversava; nelle sue avide mani era ormai ogni potere; la presenza d’una Chiesa dotata non solo del potere spirituale, ma anche di quello temporale, era per essa non più sopportabile. E così, sul pontificato di Gregorio XVI soffiarono venti fortissimi, che ne provocarono reazioni decisamente autoritarie. Non si trattava di qualche leggero e piacevole zefiro, o di qualche movimento di fronda, erano venti che travolgevano: discordie dinastiche; difficoltà diplomatiche; filosofie in antitesi col pensiero cattolico, teorie teologiche e filosofico-politiche, come il gallicanesimo ed il febronianismo, in contrasto con l’ecclesiologia cattolica e con il diritto pubblico ecclesiastico, contro il primato petrino e contro il suo universale magistero, protestanti e cattolici in lotta, specialmente in Svizzera; I’America latina dilaniata dalla rivoluzione; le idee eversive di Hermes, Guenther e del semirazionalismo in genere. Si, questi erano i venti, questo l’asse ereditario che piombò d’improvviso sulle spalle del card. Giovanni Maria Mastai Ferretti e che avrebbe fatto impallidire chiunque altro, non lui: “Ecce indignus servus tuus, fiat voluntas tua”, esclamò con le lacrime agli occhi nel divenire Pio IX, arieggiando Lc 1,38 in cui Maria assicura a Dio la sua totale disponibilità: “Sono la tua serva; fai di me quanto hai deciso di fare”.
Il cambiamento di rotta, rispetto a quella di Gregorio XVI, non fu un calcolo. Fu l’effetto della sua innata affabilità, della sua dolcezza, della sua mitezza, della sua inclinazione alla comprensione e alla clemenza. La gente lo capì e ne fece il più celebrato personaggio dell’epoca, l’uomo più popolare del suo tempo.
La clemenza non era acquiescenza. Né poteva risolversi in cedimento. Dolce e mite, comprensivo e clemente, Pio IX fronteggiò sempre l’eversione rivoluzionaria e non si dette mai per vinto dinanzi alle sue prepotenze. Fu proprio dinanzi ad esse che emerse la “imperterrita serenità” dell’uomo superiore: concesse senza scendere a patti compromissori, resistette senza violentare l’innata mitezza. L’amnistia generale, da Lui decretata nel 1849, e gli altri provvedimenti sociali che la contornarono e le fecero seguito son la riprova della “soave fortezza” di questo troppo spesso non capito e talvolta bistrattato Pontefice.
E’ facile scorgere, come concause d’un siffatto atteggiamento, un’intelligenza acuta e penetrante ed una volontà pronta e conseguente. Intelligenza e volontà che, in Lui, si sintetizzano con l’unità e l’armonia della sua “imperterrita serenità”. Vedeva la sostanza delle cose, le controllava agevolmente, spesso le antivedeva e decideva: esattamente come avviene in ogni persona di chiaroveggente ingegno e di risoluta determinazione.
La grandezza non comune di Pio IX maturò in codesta sintesi. Riconobbe i tempi e ne lesse i segni. Capì di dover accompagnare e pilotare il naviglio di Pietro in una turbolenta fase di transizione tra la cultura imperante fin alla rivoluzione francese e quella dei tempi nuovi, non ancora compiutamente evolutisi. Il trapasso non era per nessuno neanche per Pio IX, di facile gestione, non privo essendo d’incognite, di scogli non facilmente superabili e dei correlativi pericoli. Si può perfino convenire, con il senno del poi, che avrebbe potuto esser gestito meglio. Pio IX lo gestì da Pio IX: con una fedeltà che Egli, lungimirante come non pochi, antepose alla lungimiranza; con la difensiva più che con il pionierismo, combattendo a spada tratta l’errore, dovunque affiorasse, per assicurare alla Fede e alla Chiesa un presente ed un domani conformi ai fasti del passato.
2 – Sentimenti ed affetti
Ogni epistolario, così come ogni diario, è sempre una finestra aperta sulle più recondite pieghe dell’animo e della vita intima di chi scrive. Pio IX non fa eccezione. In ogni sua missiva si scopre qualcosa di Lui. Ed altrettanto in quei fogli, numerosissimi e vari, che, sottratti alla dispersione o al cestino, hanno permesso alla critica la ricostruzione storica di vicende giornaliere e della temperie nella quale esse si svilupparono. Si sono così conosciuti particolari interessantissimi anche se non roboanti, relativamente a ciò ch’Egli senti pensò e fece, improvvise stimolazioni sui suoi stati d’animo, vibrazioni intensissime della sua sensibilità e personalità, perfino qualche zona d’ombra, appena percepibile, della sua umana natura.
Non poche delle dette lettere e degli scritti sopra accennati permettono una concreta e realistica visione di particolari momenti che segnarono la vita di Pio IX e quasi una partecipazione ai medesimi; una maggiore e sempre più obiettiva conoscenza della sua famiglia e dei rapporti con essa mantenuti; le ripercussioni che ebbe sul suo animo la morte del padre, della madre e dei fratelli; le sollecitudini ed i gestì di non discutibile carità (mai del resto scantonati nel privilegio e nel nepotismo), da Lui compiuti in più d’una occasione a favore di fratelli parenti ed amici.
Da tutto l’insieme emerge un’ulteriore pennellata per una definizione più puntuale della sua immagine, della sua indole, del suo mondo interiore, insomma dei suoi sentimenti ed affetti.
Quando non eran in gioco i diritti di Dio, la libertà della Chiesa e della Sede Apostolica, il bene delle anime e la giustizia, prevaleva in Pio IX la tendenza a temperare ogni spigolosità, a scusare le altrui miserie, a presumere una bontà di fondo, almeno intenzionale, anche in chi lo contrastasse. Si capisce molto bene, tuttavia, che quel suo fare conciliante né indicava, di per sé, una natura imperturbabile, né era del tutto alieno da una forte disciplina interiore. Pio IX aveva, infatti, conosciuto ben presto i suoi difetti e su di essi esercitò sempre un controllo che qualcuno, mal interpretando le sue facezie, le battute spiritose e la capacità di rilevare con immediatezza i punti deboli delle persone e delle cose, stenta ancor oggi a riconoscergli. Non era certo colpa sua se aveva occhi per vedere ed orecchi per intendere. Quando s’accorgeva della piega che le circostanze prendevano, non esitava a manifestare il timore che “sotto ci sia qualche giraccio”, che responsabili ne fossero i soliti giochi di potere, che le beghe l’avevano profondamente “turbato”, anche se si ricomponeva presto nella sua “imperterrita serenità”. Non s’equivochi tra questo `imperterrita” e 1’”imperturbabile” poco prima accennato: questo è dello stato d’animo che non s’increspa mai, quello della serenità raggiunta con l’autocontrollo e la costante disciplina.
L’innata dolcezza non neutralizzava in Lui la vivacità temperamentale, gli capitava perfino, in qualche rara occasione, di rispondere alle sollecitazioni indiscrete con uno scatto improvviso; qualcuno parla d’irascibilità e di collera. Qualche altro perfino di sarcasmo. Ma l’analisi della documentazione riconduce quei rari fenomeni alle loro effettive dimensioni. Pio IX si controllava. Riportava tutto ciò che sapesse di screzio “al petto dell’amicizia” e l’annullava con la sua carità.
D’altra parte, quella sua immediatezza che gli rendeva rapida l’intuizione e la percezione, e ne accelerava di conseguenza l’espressione, non riguardava i casi gravi; non di rado il tutto non era che una battuta di spirito dinanzi alle piccole cose d’ogni giorno.
Direi allora: immediato si, ma non impulsivo. Ed ancor meno irriflessivo. Grazie infatti alla riflessione, si facevano strada in Lui la chiarezza, la comprensione, la carità. Metteva a fuoco le situazioni e le altrui posizioni giudicandole secondo la loro realtà, cercava di capirne le motivazioni anche se non tutte poteva scusarle, su tutte però stendeva il manto della carità e là dove s’arrestava la sua capacità d’intervento, tutto rimetteva nelle mani di Dio.
La carità non era per Lui un pretesto per tacere, al contrario il suo parlar chiaro era vera carità, come quando scriveva al nipote Luigi: “Siccome avete mantenuta la relazione mi pare indubitato il dovere che vi resta d’adempiere. Me ne furono fatte premure nei febbraio ed io ve ne scrivo in luglio. Vedete che scrivo veramente a caso pensato”.
A parte questi doverosi puntini sulle “i”, fu sempre, con i suoi interlocutori parenti o no, d’una dolcezza squisita, anche se ferma e mai goffa. Parlavo chiaro, quando era il momento di parlar chiaro: “Protesto di non farne più parola, né di ritornare su questo argomento con chi che sia”. Ma sulla chiarezza prevaleva sempre il nobile sentire e soprattutto la bontà del cuore: “Il desiderio di tornare a vedervi è grande”, “Divertitevi nel vostro gabinetto, ricordatevi di me qualche volta e crediatemi (sic, ed è spesso ricorrente) costantemente…”; “Voglio credere che i vostri cari figli stiano tutti bene, e ardisco pregarvi di darci un bacio a mio nome”. Piccoli ma significativi attestati di quanto vivo fosse il suo sentimento di premuroso affetto per chiunque, a qualunque titolo, fosse entrato in contatto con Lui.
Mantenne con i familiari e i parenti un rapporto improntato al rispetto non formale dei legami di sangue, ossia alla sincerità e verità dell’amore. “Vi benedico e vi abbraccio”, era la conclusione più ricorrente delle sue lettere. Ma proprio nel culto di tale verità, non volle mai immischiarsi nelle grandi manovre matrimoniali sociali e finanziarie della sua nobile famiglia. Qualche consiglio, qualche modesto e raro aiuto finanziario tratto dal suo peculio personale ed in casi di provata impellente necessità (“In questo caso ho già stabilito l’aiuto da darti”), o un defilarsi garbato ma fermo: “Il Papa ha sempre dichiarato che niuna parte vuol avere in questo matrimonio”; “Mi dispiace di non poter secondare i vostri desideri; per cui troverete maniera di rassegnarvi”. Riemergeva insomma, anche dalle sue relazioni con familiari e parenti, quell’autocoscienza papale, che gli ricordava i “figli” avuti dalla Divina Provvidenza e per i quali, prima che per altri, fossero anche del suo sangue, si dichiarava disposto a dare tutto quanto possedeva. Del resto, come “potrebbe somministrare denari” chi “vive di soccorsi”?
Non permetteva comunque che qualche suo giustificato rifiuto pregiudicasse l’armonia del rapporto: “Io non ho intenzione di irritarmi con chi che sia e solo desidero ardentemente la concordia e la pace in Famiglia”. Aveva però una spina nel cuore e ne soffriva immensamente. Sua sorella Maria Isabella, sposa d’Isidoro Benigni e madre di Giovanni, s’era separata dal marito per incompatibilità di carattere. Era lei la spina: “Per le cose mie domestiche, niun motivo di doglianza…quello che mi affligge si è la causa ..di questa mia sorella”. Un risvolto non esaltante, che peraltro dà, sul piano affettivo la misura d’un Uomo veramente superiore.
3 – Bonomia ed ilarità
Desidero insistere ancora sulla sfaccettatura d’una personalità da qualcuno “equivocata” in base ad alcuni del suoi tratti meno convenzionali.
Parlando d’un nobile e per giunta non dei nostri giorni, si è indotti ad immaginarlo tutto compreso del suo alto lignaggio e delle distanze che lo separano dalla gente comune. Trattandosi però del conte Giovanni Maria Mastai Ferretti, papa Pio IX, il ritratto da fare è esattamente l’opposto.
Un papa tra la gente oggi non fa più meraviglia; Giovanni Paolo II ci ha abituati ad una forse programmata rottura degli schemi burocratici ed anche se non si può pensare d’andar liberamente a stringere la mano del Pontefice, è spettacolo frequente quello del Pontefice che stringe la mano ai più vicini, ai lati che fiancheggiano il suo passaggio.
Lo schema, a dir il vero, era già stato infranto: Paolo VI, Giovanni XXIII, Pio XII lo fecero in diverse occasioni. Nessuno può evocare, senza commuoversi, la bianca figura del Pastor Angelicus imbrattata di sangue in mezzo alla popolazione di San Lorenzo, dove un bombardamento era appena cessato. Pio IX non conobbe limiti a questo immediato contatto con la sua gente. Ogni occasione era buona per abbandonare la carrozza ed intrattenersi bonariamente con i suoi Romani, o per cancellare il cerimoniale fastoso ed imponente dei tempi passati a tutto vantaggio della comunicazione in alto ed in basso. Quasi ogni giorno rinnovava questa comunicazione diretta e non aspettava d’esser in campagna o fuori porta, come il cerimoniale gl’imponeva, per scender di carrozza, camminare a piedi, fermarsi con i primi incontrati, interessarsi ai loro problemi, ascoltarne gli umori, lasciar loro una buona parola e non soltanto quella.
Di fatto si poteva incontrarlo al Pincio, al Corso o in Piazza del popolo, al centro o in periferia, nell’atto di rispondere ad un saluto, di colloquiare affabilmente, d’ascoltare con paterno interesse chiunque avesse avuto bisogno d’esporgli il suo caso. A distanza di pochi metri, il segretario distribuiva danaro ai poveri: una scena tanto frequente da esser considerata un copione.
Era tanta l’affabilità del Pontefice, tanta la sua semplicità e tanto l’interesse prestato alla consueta litania di suppliche e lagnanze, che la gente si sentiva invogliata a rivolgergliele. Questo atteggiamento era indubbiamente dettato da un animo aperto e buono, condiscendente e compassionevole, ma Lui, Pio IX, l’aveva anche temprato in tal modo fin da giovane, quando prestava la sua opera tra i ragazzi di Tata Giovanni, e più tardi, quando gli fu affidato il difficile complesso di San Michele, dove toccò con mano la sofferenza e la solitudine dei poveri.
Per essi non rifuggiva nemmeno da qualche gesto fuori le righe. Come quando entrò personalmente nel negozio d’un vinaio, acquistò un buon fiasco ad Orvieto e lo regalò ad un ragazzo piangente dinanzi ai vetri rotti del fiasco scivolatogli di mano. Altre volte, per evitare che i beneficiati si sentissero in obbligo di ringraziarlo, riusciva a far loro pervenire l’aiuto nel modo più anonimo, perfino calandolo da una finestra o introducendolo furtivamente da una porta.
A testimonianza del suo legame con la gente, è da tener presente anche il ragguardevole elenco di fondazioni ed istituzioni varie, volute per sollevare i poveri dalle necessità materiali e morali: dalla fame, dall’ignoranza, dalla solitudine, dalla malattia, dal bisogno. Segno anch’esse del “cuor ch’egli ebbe”.
Richiamo infine l’attenzione su un aspetto tra i non meno rilevanti della personalità di Pio IX e nel quale affrettati o prevenuti critici han trovato materia per riserve ed accuse da suggerire all’”avvocato del diavolo”. Tale aspetto trova la sua spiegazione nel quadro di quell’immediatezza che fu già rilevata e sottolineata. Alludo alla sua arguzia, alla sua ilarità, al suo umorismo. Ne nascevano battute anche pungenti, o salaci, che o sconcertavano l’interlocutore o lo mandavano in visibilio. Dicono che l’arguzia sia tra le caratteristiche dei marchigiani; certo è che Pio IX ne era abbondantemente dotato. E ne faceva uso non raro, specie se si trattava d’addolcire l’atmosfera un po’ troppo tesa, di sollevare l’ilarità altrui, di sdrammatizzare qualche momento difficile. In certi casi, basta una parola per troncare un discorso, sviare l’attenzione, suscitare una provvidenziale risata. Pio IX, a questo riguardo, era un vero maestro.
Nella sua vita abbondano gli aneddoti legati al suo umorismo. Non posso raccontarne molti; ne segnalo alcuni a solo titolo esemplificativo .
Sono noti, p. es., quelli che ebbero per protagonista un certo Mons. Casali, un buon uomo, ma non un pozzo di scienza né una mente acuta. Un giorno, mentre si parlava dinanzi a Pio IX di Papa Sisto V, il buon Casali se ne usci in quest’esclamazione: quelli si che eran veri papi ! Pio IX, nient’affatto offeso, replicò: se lo dice lui ! E quando Mons. Casali riferì al Pontefice d’aver ricevuto uno schiaffo dalla madre, Pio IX domandò: uno solo? Ve ne doveva dare almeno due, uno anche per conto mio!
Ad un benedettino che smaniava per la porpora rivelò: ho intenzione di far cardinale un benedettino. Si fermò per tenere in tensione il buon padre, poi continuò: il suo cognome incomincia con la P. Si dà il caso che con la P incominciasse quello dell’aspirante cardinale (Pescetelli), il quale però si senti andar il sangue in acqua, quando il Papa concluse: ma non è un italiano.
Ad un genitore che Gli chiedeva di sistemare il figlio di modesto ingegno, Pio IX dette la seguente assicurazione: ho trovato, ne faremo un impiegato della Reverenda Camera Apostolica!
Equivocando un giorno sul significato metaforico di “pettinare”, mise le mani sui capelli d’una piccola accompagnata dalla mamma, vi nascose 2000 scudi e, con riferimento al padre che aveva ridotto la famiglia in miseria, invitò la bambina a farsi pettinare soltanto dalla mamma.
Aveva la bocca piena e masticava a quattro palmenti un avventore uscito da un’osteria per vedere Pio IX che passava, e gridarGli: “Santità, muoio di fame”. E il Papa:”lo vedo, lo vedo!”.
Un prete di Romagna, per il quale Pio IX aveva pagato di tasca propria un corso di Esercizi Spirituali in riparazione di sfuriate romagnole, al Papa che lo invitava a non commetterne mai più rispose: non dubiti, Padre Santo, ho imparato a mie spese. Ma il Papa corresse: vorrete dire a mie spese.
Durante un’udienza, Gli fu presentata una signora dal cui cappello svettavano altissime piume. Appena seppe che si chiamava Guerrieri, osservò: già, me n’ero accorto dal cimiero!
Un friggitore, sfrattato dal Municipio, fermò la carrozza di Pio IX e Lo pregò di poter continuare a friggere. Il Papa, avuta una penna ed un foglio di carta, emanò il più faceto rescritto di tutta la sua vita: frigga come vuole, frigga dove vuole, frigga quanto vuole.
A chi Gli faceva notare che il Concilio sarebbe costato ogni giorno un numero esorbitante di scudi, Pio IX rispose: non so se da questo Concilio il Papa uscirà fallibile o infallibile, so però che ne uscirà fallito!
Continuare? sarebbe piacevole, ma non aggiungerebbe più nulla alla definizione della sua fisionomia, ormai ben tratteggiata. “Ecco l’uomo”, disse un giorno Pilato di Nostro Signor Gesù Cristo (Gv 19,5); “questo è 1’uomo”, si può ora dire di Giovanni Maria Mastai Ferretti.
4 – Due questioni a parte
Alcuni storici e personalità pubbliche di Senigallia non esitarono a fare di Pio IX il giustiziere spietato (“sordo non pure ad ogni voce di giustizia, si anche ad ogni richiamo di pietà che gli veniva dal dolce luogo natio”) del colonnello della Guardia civica Gerolamo Simoncelli. I fatti son tristemente noti. Due sentenze, l’una del 31dicembre 1851 e 1’altra del 21 febbraio 1852, con votazione quasi plebiscitaria fanno del Simoncelli il capo indiscusso d’una fazione operante a supporto della “Compagnia Infernale o degli Ammazzarelli”. Per la carica da lui ricoperta, che ne faceva non tanto un uomo d’ordine quanto il responsabile dell’ordine pubblico, su di lui furon fatti ricadere, prima che su altri, i misfatti della “Compagnia Infernale” e per essi venne condannato a morte insieme con altri 12 imputati. Il Sovrano, cioè Pio IX, indubbiamente avrebbe potuto graziare il Simoncelli allo stesso modo che graziò, per le condizioni della sua famiglia, il Simonetti. Tentativi a tale scopo non mancarono, ed alcuni autorevolissimi; ce ne fu uno perfino della sorella di Pio IX, Teresa Mastai Giraldi. Le sentenze ebbero però attuazione e gl’imputati vennero messi a morte.
Bisogna, al riguardo, procedere con somma cautela. Non consta che la domanda di grazia sia mai stata avanzata dal Simoncelli in persona; a suo favore intervennero le sorelle, non lui. Il silenzio significò pertinacia, non pentimento; e la grazia si concede ai pentiti. Consta d’altra parte che Pio IX era ben disposto alla grazia, solo aspettando che il colpevole gliela richiedesse. Nel silenzio di lui, di fronte a ben due sentenze univoche sulla colpevolezza personale dell’imputato, lasciò (forse a malincuore) che la legge avesse il suo corso. Si noti una circostanza: non firmò il decreto di condanna.
L’uomo d’oggi resta esterrefatto: una conseguenza dell’imperante buonismo”? Si, ma anche d’una radicalmente diversa mentalità, di quella comune e di quella giuridica. Sta di fatto che la pena di morte urta contro le fibre più sensibili e delicate della coscienza umana. Oggi in genere la escludiamo. Ma allora? Era legge, come legge era al tempo dei predecessori Gregorio VI, Sisto V e San Pio V. Più che legge, era convinzione morale universale che fosse legittimo cautelarsi contro l’ingiusto aggressore del bene comune anche con la pena di morte. E Pio IX, in questa così come in altre occasioni, non potè sottrarsi al dovere di tutelare la giustizia e quindi il bene comune: l’ordine pubblico, la legge dello Stato, la difesa degli uccisi. Perché lo si giudica con la sensibilità morale e con le acquisizioni giuridiche di oggi per fatti avvenuti in un altro contesto storico e secondo la logica della sua cultura? Se c’è qualcosa d’ingiusto, è proprio questo mancato trasferirsi nel contesto e nella cultura d’allora per giudicarne fatti e persone in base a parametri di giudizio odierni.
L’altro fatto è quello, non meno delicato, riguardante Edgardo Levi Mortara, un ebreo battezzato clandestinamente, nel 1852, da Anna Morisi che prestava servizio presso la famiglia israelitica dei Mortara a Bologna. Il piccolo Edgardo aveva diciassette mesi circa, quando fu colto da malattia allora giudicata mortale e fu, per questo, battezzato dalla solerte fantesca. Risaputa la cosa nel 1858, per incarico della Congregazione dell’Inquisizione alcuni gendarmi il 24 giugno prelevarono Edgardo e, da Bologna, lo condussero a Roma. Pio IX l’accolse con paterna bontà dichiarandosi suo padre adottivo e provvedendo al suo futuro. A sue spese lo fece studiare presso l’Istituto dei Catecumeni in Roma e quando il giovane Mortara raggiunse l’età della discrezione, gli domandò se volesse ritornare in famiglia. Avutane risposta negativa, gli continuò la sua alta protezione. A tredici anni il Mortara fu aspirante presso i canonici regolari di san Pietro in Vincoli e poco dopo (1866) novizio. Professò i voti semplici il 17 novembre1867 a Sant’Agnese fuori le mura ed emise la professione solenne il 31 dicembre 1871 nel Tirolo austriaco. Insegnò poi scienze sacre in Italia e all’estero e predicò indefessamente in varie lingue. Morì a Roma nel 1940 all’età di 89 anni, senz’aver mai perso i contatti con la sua famiglia e mantenendo sempre la più filiale gratitudine a Pio IX, dal quale aveva tanto ricevuto.
Sulla vicenda l’anticlericalismo dell’epoca e non soltanto quello montò il “caso” Mortara. Non mi riferisco ai ben comprensibili tentativi della famiglia per riavere Edgardo ma allo scatenarsi dell’odio liberale e massonico contro Pio IX, “reo” d’aver soppresso il diritto naturale per una “discutibile” questione di fede. Non potendo agire direttamente contro di Lui, fu processato ed incarcerato il P. Feletti, che aveva disposto il prelievo d’Edgardo, nel 1870 lo stesso Mortara, quotidianamente pedinato dalla polizia, preferì emigrare, senza che ciò attutisse il rumore del suo “caso”, un rumore che Pio IX in persona chiamò una bufera universale contro di me e la Sede Apostolica”, orchestrata da organismi internazionali ebraici ed appoggiata dall’anticlericalismo americano, belga francese, svizzero e perfino russo. Anche la Chiesa anglicana ci mise lo zampino.
La ragione è che si volle idolatrare ed assolutizzare il diritto naturale d’un minorenne alla propria famiglia, e di questa che a tutto poteva pensare fuorché alla perdita del proprio figlio. Non si volle riflettere sulla logica evangelica della salvezza eterna, come prima e suprema legge, alla quale anche il diritto naturale è subordinato.
Oggi, come allora, del “caso” Mortara si fa un argomento contro il presunto antiebraismo di Pio IX. L’accusa ha del risibile. Se c’è un Papa che ha protetto ed aiutato oltre ogni limite gli Ebrei, è proprio lui, Papa Mastai Ferretti. Fin dal 1848, agli albori cioè del suo pontificato, li ammise come “non più stranieri” alle elemosine papali; li proclamò suoi figli; li sottrasse all’umiliante corteo annuale che li portava in Campidoglio per un tributo di legge; e nella pasqua di quell’anno fece abbattere le porte e le catene del ghetto, questo poi allargando e ripristinando. Le provvidenze a favore degli Ebrei, inoltre, furon tali e tante che alcuni di essi non esitarono a chiedersi se non fosse proprio lui l’atteso Messia.
E’ davvero il caso di ripetere: “Ecco l’Uomo” (Gv 19,5).
Cap. 3: Il Maestro
Un’attenzione particolare va riservata al magistero di Pio IX, non senza dimenticare che l’espressione più nobile di esso è la sua stessa vita: una lezione luminosa di dedizione a Dio ed alla Chiesa.
Un po’ per la sua bonomia, un po’ perché non fu uno studioso, qualcuno potrebbe pensare che Pio IX abbia dato vita ad un pontificato scialbo dal punto di vista magisteriale. Niente di più errato. Pio IX aveva il fiuto dell’errore e l’occhio clinico per individuarlo a prima vista. Ed aveva pronto, in pari tempo, l’antidoto. Non tutti sanno che la ripresa del tomismo nei seminari e nelle università, prima che di Leone XIII fu merito di Pio IX.
Ciò che sorprende in un uomo divorato dallo zelo per le anime e non dal fascino d’una cattedra universitaria, è l’informazione. Già da vescovo e da cardinale sapeva riconoscer di lontano la matrice di certe storture dottrinali, giudicandole “una meschina fusione dei pensieri di Potter, La Mennais e Bunsen”. Sapeva anzi distinguere “dal primo e dal terzo”, accaniti antiromani, il secondo, il cui equivoco consisteva in un erroneo concetto di tradizione. Sapeva del giansenismo ed era capace di riconoscerne i sintomi anche in teologi, e perfino in vescovi, che vi s’ispiravano più o meno scopertamente, in Italia e all’estero.
Non era cieco neanche dinanzi agli errori teologico-politici, che attanagliavano il clero della sua epoca. Non suscita dunque alcuna meraviglia che gran parte del suo pontificato si caratterizzi sul piano magisteriale, a difesa del deposito della Fede e a proposta d’indirizzi sicuri.
1 – L’Immacolata Concezione
Era ancora a Gaeta, esule e vittima della prepotenza politica, quando mise in moto il progetto relativo alla definizione dogmatica dell’immacolato concepimento di Maria. Non si trattava d’un fatto puramente devozionale e non era in gioco il suo personale trasporto per la Vergine Santa. Si trattava di sapere se Maria fosse stata concepita senza peccato originale e se ciò facesse parte della rivelazione cristiana.
Una consultazione mondiale fu allora promossa con l’enciclica Ubi primum. I vescovi di tutto il mondo dovevan pronunciarsi sulla legittimità e sull’opportunità o meno d’una definizione dogmatica a tale riguardo. 593 furon le risposte, delle quali 8 soltanto negative, 2 incerte, 35 favorevoli con riserva e tutte le altre, cioè la stragrande maggioranza, pienamente a favore.
Che Maria fosse stata concepita senza peccato originale era solo una pia credenza, diffusa peraltro in tutta la Chiesa, ma priva del vincolo dogmatico. Presente nella preghiera liturgica, variamente intesa dai grandi teologi del passato dei quali alcuni non ne erano stati entusiasti, accolta ed approfondita dalla scuola francescana, garantita per così dire da un avallo preternaturale (le apparizioni a S.ta Caterina Labouré) e successivamente confermata da un altro evento preternaturale (le apparizioni a S.ta Bernadette Soubiroux) la pia credenza s’apprestava a rivestirsi di portata dogmatica, quando il parere quasi unanime dei vescovi confortò il progetto di papa Mastai.
Più di sei anni, tuttavia, furono ancora necessari, sei anni di preghiera, di studio e di riflessione, prima che con l’Ineffabilis Deus Pio IX promulgasse il nuovo dogma mariano. Ad una preliminare commissione teologico-consultiva, altre 4 ne seguirono di cardinali, vescovi e teologi per trattare adeguatamente l’argomento da tre distinti punti di vista: la definibilità, I’opportunità, la redazione del testo.
Anche in tale occasione, Pio IX rivelò una prudenza pari alla fermezza del suo intento. Sottomise al giudizio di 16 teologi il primo abbozzo del testo, redatto da G. Perrone. Altri 7 vennero di volta in volta preparati analizzati e valutati. Bisognava che ci fosse provata chiarezza non solo sull’esistenza “ab antiquo” della pia credenza nella Chiesa universale, ma anche sul tenore delle risposte ricevute e delle obiezioni prima ed allora sollevate. In particolare, occorreva superarne due, senza dubbio gravi: il silenzio neotestamentario e l’universalità del peccato originale.
I lavori delle commissioni e dei singoli teologi furono intensi, accompagnati dall’interessamento personale del Papa e dalla sua ininterrotta preghiera. Con Lui pregavano tante altre persone, alle quali Egli stesso s’era rivolto; in particolare, le claustrali. A quattro giomi dalla proclamazione, il testo non era ancora perfettamente a posto e si deve ai suggerimenti diretti di Pio IX il superamento definitivo delle difficoltà.
8 dicembre 1854. Con una solennità inaudita, nella patriarcale basilica di S. Pietro in Vaticano, alla presenza di 53 cardinali, 43 arcivescovi e 99 vescovi, accorsi appositamente per testimoniare il consenso della Chiesa universale, il Santo Padre, non senza commozione, definì come dogma di fede l’immacolato concepimento della Vergine Maria. Tre anni dopo il Papa stesso rievocò quel momento paradisiaco: “Quando iniziai a leggere il decreto…sentii la mia voce incapace di farsi capire dall’immensa moltitudine che riempiva la basilica vaticana. Ma quando arrivai alla formula, Dio donò alla voce del suo Vicario una forza tale e tale vigore soprannaturale, da farla risuonare in tutta la basilica. Ero così impressionato d’un tale divino soccorso, che dovetti interrompermi un momento per dar libero sfogo alle mie lacrime”.
Questo dogma, sia ben chiaro, s’impone all’attenzione critica e alla Fede della Chiesa non per le lacrime di Pio IX, ma per il suo contenuto pienamente conforme alla Fede e per il valore dottrinario della sua formulazione. Pio IX capiva l’interconnessione dell’Immacolata con le altre verità rivelate ed ebbe il coraggio, la fermezza e la coerenza d’insistere su una siffatta connessione per far diventare dogma una pia ed antichissima credenza. Aveva anche capito che l’Immacolata s’articolava direi organicamente con l’Assunta, questa dipendendo da quella; ma a chi lo sollecitava per procedere anche alla definizione dogmatica di Maria assunta corpo ed anima nella gloria celeste, rispose di non esserne degno, anche se sicuro che ciò si sarebbe avverato più tardi.
A scanso d’equivoci, sembra ora opportuno sostare dinanzi al testo per coglierne il significato autentico.
Esso s’apre con l’appello all’autorità che dà garanzia dogmatica al magistero papale: “Per l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei Beati Apostoli Pietro e Paolo e nostra”. Anche dal punto di vista della formulazione tecnica, si è di fronte ad un esordio magisteriale. L’intervento del Papa si giustifica in base al fatto ch’esso dipende non da una decisione privata del Pontefice stesso (e per tale motivo ho tradotto “nostra” invece che “la nostra”; quell’articolo indicativo potrebbe in effetti distinguere l’autorità del Papa da quella di Cristo e degli Apostoli Pietro e Paolo, mentre si tratta della medesima ed unica autorità), ma da una decisione “pubblica”, dovuta cioè alla sua “persona pubblica”, ovvero al suo ufficio magisteriale di Capo Maestro e Pastore supremo della Chiesa, al quale lo Spirito Santo assicura l’autorità stessa di Cristo capo Maestro e Pastore.
“Noi dichiariamo affermiamo e definiamo”. Linguaggio classico, che troverà conferma, poco dopo, nella “Pastor aeternus” del Vaticano I. Nel “noi” non risuona un semplice plurale maiestatico, ma la limpida coscienza dell’ufficio papale: pertanto, non la sola rappresentatività di tutta la Chiesa, ma la responsabilità universale che tutta la coinvolge, in ogni tempo, in ogni dove, nella professione del dogma mariano.
“Che la dottrina, secondo la quale la Beatissima Vergine Maria. fin dal primo istante in cui venne concepita, per singolare grazia e privilegio di Dio, in considerazione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, fu preservata immune da ogni macchia del peccato originale, è da Dio rilevata ed è pertanto fermamente e costantemente”. Sta qui il contenuto dottrinale della definizione piana, dove peraltro occorre far una distinzione: il contenuto rigorosamente dogmatico è quello relativo alla dottrina in quanto rivelata e perciò “credenda”; la specificazione di tale dottrina indica i limiti di ciò che fu rivelato e che bisogna credere: non al di sopra, non al di sotto di essi. Da notare anche la contraddizione di qualche antica e moderna traduzione del “praeservatam immunem” con “affrancata”; se affrancata dal peccato, Maria non ne sarebbe stata immune.
2 – Il Vaticano I
Procedo per sommi capi, impossibile essendo, ora, un’esposizione analitica completa sul magistero di Pio IX. Sarebbe di grande interesse il soffermarsi sul peso magisteriale delle sue non poche encicliche; ma è di gran lunga maggiore l’interesse che collega il peso suddetto all’evento epocale la cui sola memoria basta ad immortalare il grande Pontefice: parlo del Concilio Ecumenico Vaticano I.
Ne parlo non per tesserne la storia, ormai investigata in ogni suo più piccolo particolare, ma per documentarne quel peso magisteriale al quale prima accennavo, e che ridonda in ultima analisi a merito di Colui che quel Concilio volle, aprì, diresse e promulgò.
Apertura del Concilio Vaticano I del 1869
Anche il progetto d’un Concilio ecumenico nacque a Gaeta nel 1849. Nel 1863 fu il card. Wiseman a parlarne con Pio IX. E questi, il 6 dicembre 1864, confidò la sua speranza ai 15 cardinali della Congregazione dei Riti. L’anno successivo entrò in azione una commissione cardinalizia. E così, di commissione in commissione, di consulta in consulta, non assenti nemmeno alcune contromanovre da parte sia di circoli massonici ed anticlericali, sia d’ecclesiastici d’avanguardia, s’arrivò all’apertura del Concilio: 7 dicembre 1869.
Fu davvero un Concilio Ecumenico: 55 cardinali, 6 patriarchi, sei abati “nullius”, 24 abati generali, 29 generali di ordini e congregazioni religiose, 964 vescovi. E’ risaputo che non tutto il materiale preparato venne di fatto discusso ed approvato. I venti di guerra e le condizioni politiche italiane determinarono la chiusura precoce del Concilio (18 luglio 1870) e due sole furono le Costituzioni dogmatiche approvate: la “Dei Filius” e la “Pastor aeternus”.
L’una fu discussa per oltre un mese e concluse il suo itinerario con miglioramenti e varianti di carattere formale e teologico. Altrettanto avvenne per l’altra, anche se l’incerto clima politico ne condizionò almeno in parte la discussione.
La “Dei Filius”, approvata in sessione plenaria il 24 aprile 1870, fu promulgata seduta stante da Pio IX, evidentemente compiaciuto e grato al Signore. Nel prologo si passavano in rassegna i principali errori dell’epoca moderna, con particolare riferimento a quelli sull’esegesi biblica, sul razionalismo e sul naturalismo, donde si cade “nell’abisso del panteismo, del materialismo e dell’ateismo”. In evidenza, ovviamente, venivan messi anche gli errori teologici che confondevano i confini della natura e della grazia e si discostavano dall’insegnamento tradizionale della Chiesa
Dopo il prologo, quattro brevi capitoli sulla genuina Fede cattolica: Dio Creatore dell’universo; La Rivelazione divina, la Fede, la Fede e la ragione. Il contenuto di questi quattro capitoli trova poi la sua formulazione dogmatica in 18 canoni che infliggono la scomunica a chiunque osi negarne il contenuto dottrinale, diffondendo e sostenendo dottrine ad esso contrarie.
Non mancarono, qua e là, delle critiche: vescovi poco convinti, teologi d’ispirazione liberale e neogallicana, storici il cui metro per valutare la vita della Chiesa prescindeva dal soprannaturale. La maggior parte dei destinatari, però, gioì con Pio IX perché il Concilio aveva raggiunto uno dei suoi scopi principali: aveva non solo condannato gli errori, ma a questi aveva contrapposto la verità immutabile della rivelazione divina.
La seconda Costituzione dogmatica del Vaticano I, la “Pastor aeternus”, è comunemente conosciuta come la costituzione sulla Chiesa; in realtà i tempi ristretti dei lavori conciliari furon la causa del loro “cursus in fine velocior”. I Padri stessi, o alcuni di essi, non vedevan l’ora di far ritorno alle loro sedi. Ne fecero le spese soprattutto i temi ecclesiologici, dei quali si discusse ed approvò solo una piccola parte (il cap. XI dello schema “de Ecclesia”), riguardante la dottrina del Romano Pontefice. La si articolò in tre capitoletti, ai quali fu poi aggiunto il cap. IV sull’infallibilità papale.
In quella fase conciliare, infallibilisti ed antinfallibilisti misero in atto sottili ed accorte manovre, capaci di portare la questione dell’infallibilità al centro dell’interesse conciliare. Come sempre in casi del genere, le posizioni andavano dal si al no passando attraverso sfumature varie, il cui scopo era quello di mediare gli estremi.
Il 6 marzo 1870 fu consegnato un progetto, frutto di lunghe discussioni, che s’aggiungeva al cap. XI poco sopra ricordato e che ebbe subito il massimo interesse dei Padri conciliari. Proseguiva intanto la discussione del cap. XI sull’ufficio primaziale del vescovo di Roma. 139 furono gli emendamenti proposti e poi discussi ed approvati. Alla fine, il testo ebbe il gradimento comune circa la dottrina che stabiliva come dogma di Fede che al solo Pietro il Signore donò il primato sulla Chiesa universale; che tale primato è per divina disposizione transpersonale, da trasmettere cioè ai legittimi successori del principe degli Apostoli; e che esso consiste non in una supervisione o nella posizione del “primus inter pares”, ma in una vera e propria giurisdizione.
La questione di fondo rimaneva, tuttavia, quella del progetto aggiuntivo sulla infallibilità papale. Le proposte s’accavallavano a vicenda. Quelle favorevoli incontravano la resistenza d’una minoranza teologicamente agguerrita e non incline al facile cedimento. Nuovi gallicani e frange non indifferenti di conciliarismo mitigato pretendevano almeno questo: che prima di procedere ad una definizione dogmatica, nella quale pertanto fosse impegnata l’infallibilità dell’asserto, il Papa avesse l’assenso dei vescovi, per la ragione che essi concorrono con Lui al governo della Chiesa. La maggioranza rispondeva che all’esercizio dell’ufficio petrino, uno ed indiviso, non ha parte l’episcopato, con la conseguenza che il Papa di per se stesso, e non mediante il consenso dei vescovi o della Chiesa, è capace di definizioni infallibili.
Il 4 luglio, per la sesta volta in quattro mesi, fu proposta una formula aperta ad alcuni emendamenti, ma ferma sulla sostanza. Una maggioranza schiacciante l’approvò il 13; ma la minoranza non si dette per vinta. Valendosi dell’ampia libertà concessa da Pio IX a chiunque volesse o avesse da eccepire, Mons. Dupanloup suggerì al Papa d’approvare, si, come decisione conciliare la dottrina dell’infallibilità sulla quale confluiva il parere della maggior parte dei Padri, ma d’astenersi dal promulgarla per non turbare gli spiriti già molto preoccupati. Insomma, si voleva metter la mordacchia a Pio IX, il quale non era affatto disposto a lasciarsela mettere.
Arrivò il 18 luglio. Su 535 presenti, 2 soltanto si dissero contrari, una quarantina di vescovi aveva lasciato Roma, un po’ per la precarietà della situazione politica, un po’ per non partecipare alla plenaria. Non senza commozione ma fermo sulle sue posizioni, Pio IX rassicurò i confratelli nell’episcopato sui rapporti tra l’episcopato stesso e l’infallibilità, nel senso che questa suprema prerogativa dell’autorità papale, anziché schiacciare quella episcopale, è a tutela e garanzia di essa.
In realtà, non si trattava della divinizzazione d’un uomo né dell’assorbimento, da parte sua, delle responsabilità e prerogative dei vescovi. Il Papa, chiunque fosse, anche dopo la definizione dogmatica della sua infallibilità restava l’uomo che era e come era: con i suoi pregi ed i suoi difetti. In quanto dottore privato, può sempre cadere in errore come ogni altro privato dottore. Ma in quanto Capo supremo, Maestro e Pastore di tutta la Chiesa, in ciò che riguarda le verità da credere e da incarnare nel tessuto quotidiano, gode d’uno speciale carisma, cioè di quell’infallibilità che rende le sue decisioni irreformabili di per sé e non per il consenso della Chiesa.
Tale formula entrò come quarto capitolo nella “Pastor aeternus”. Ognuno dei quattro capitoli venne quindi specificato da un canone dogmatico. Si chiudeva in tal modo, con una evidentissima vittoria della Divina Provvidenza che guida i passi degli uomini verso i suoi traguardi, oltre che con l’oscurarsi dell’orizzonte politico internazionale ed italiano, il Concilio Ecumenico Vaticano I. Esso fu pure, in ultima analisi, la vittoria di Pio IX. A me piace considerarlo, per le sue due Costituzioni dogmatiche, una perla del magistero piano.
3 – Il Sillabo
Affronto per ultima, anche se cronologicamente avrei dovuto parlarne prima, una delicata questione, causa di non rari malintesi e d’infondate accuse sia contro Pio IX sia contro la Chiesa: la questione del Sillabo.
Il 9 giugno 1862, ad un buon terzo dell’episcopato mondiale convenuto a Roma per la beatificazione di 26 martiri giapponesi, Pio IX tenne una ben nota allocuzione sui “terribili mali” che affliggevano la Chiesa e la stessa società civile. Fu, da parte sua, l’ennesima denuncia del razionalismo, del panteismo, dell’ateismo e di ciò che tra breve sarebbe stato chiamato modernismo. In particolare eran direttamente colpiti quanti giudicavano la divina rivelazione “imperfetta e soggetta ad un progresso continuo ed indefinito, conforme al progressivo sviluppo della ragione umana”. Pio IX colpiva inoltre chi riduceva a favole i miracoli e le profezie dei Libri Sacri, chi nei misteri della Fede null’altro vedeva che il risultato d’investigazioni filosofiche, chi dava per scientificamente accertato che Antico e Nuovo Testamento contenessero soltanto dei miti e che lo stesso Cristo fosse “mito e finzione”.
Come si chiamassero i colpiti da Pio IX era implicito nelle sue parole: David F. Strauss in Germania; Emesto Renan in Francia; altri seguaci dell’uno e dell’altro. Il Papa voleva impedire che i loro errori si propagassero nei Seminari e nelle Università, magari sotto il titolo di progresso scientifico.
Era insomma un Sillabo “in nuce”. Del resto il Sillabo, cioè l’elenco dei principali errori del tempo, era cominciato prima di Lui. Pur tacendo altri nomi, una menzione va fatta per Gregorio XVI, anch’egli invitto difensore della Fede contro l’attacco portatole dal razionalismo illuministico, dal secolarismo e dall’ateismo di varia estrazione. Pio IX ne segui le orme già con la sua prima enciclica (Qui pluribus del 9 novembre 1846), autentico anticipo della Quanta cura e dello stesso Sillabo. Chi non fa questo collegamento corre il rischio di fermarsi ad un’immagine di Pio IX che intraprende il suo pontificato con sentimenti e propositi difformi dalla sua spiritualità e non in linea con le sue preoccupazioni pastorali. Al contrario, l’alba di questo pontificato, con la Qui pluribus, s’illuminava di quella severa vigilanza magisteriale che, già presente nell’animo del giovane prelato a Roma, in Cile, a Spoleto e ad Imola, accompagnerà il suo non facile pilotaggio del naviglio petrino e si evidenzierà in modo speciale proprio con il Sillabo.
Sembra che il suggerimento di catalogare e condannare pubblicamente gli errori moderni sia stato rivolto a Pio IX per la prima volta, già nel 1849, dal card. Gioacchino Pecci, il futuro Leone XIII: un collegamento significativo, che annulla sul nascere troppo precipitose contrapposizioni dei due Pontefici. Nel 1851 toccò ad un laico di Torino Emiliano Avogadro della Motta, a sollecitare dal Papa la pubblica condanna dei numerosi e perniciosi errori moderni. E nel maggio di quel medesimo anno, Pio IX ordinò un primo sondaggio su vasta scala in ordine ad una tale prospettiva.
Nuove indagini vennero condotte tra il 1859 ed il 1860. L’esito si concretò in 79 proposizioni condannabili, raccolte sotto il titolo “Syllabus errorum in Europa vigentium”. La prospettiva andava verso il suo epilogo; ma il cammino non era stato ancora percorso per intero.
L’episcopato, nella sua grande maggioranza, assecondava Pio IX e procedeva nella stessa direzione. E’ nota la pastorale di Mons. Gerbert, vescovo di Perpignano: una nuova raccolta di errori. Pio IX, anzi, decise di rifarsi ad essa per la redazione del suo Sillabo, cioè di quello ufficiale. Nominò nel maggio del 1861 una commissione speciale perché esaminasse le 85 proposizioni di Mons. Gerbert. La commissione lavorò alacremente e, dopo decine di sedute, il documento ufficiale era pronto. Il Papa l’esaminò e lo fece consegnare ai vescovi presenti in Roma per la già ricordata beatificazione dei martiri giapponesi.
Come si vede, Pio IX non era l’uomo dei “colpi di testa”. Prudente e rispettoso delle idee altrui fino allo scrupolo, chiedeva ai vescovi ch’esprimessero liberamente il loro pensiero su un problema di tanta importanza e di tanta incidenza nell’atmosfera culturale del tempo. E circa un terzo dei vescovi interpellati, pur d’accordo sull’essenziale, giudicò inopportuna l’iniziativa.
Nel contempo, e precisamente nel dicembre del 1862, visto 1’aggravarsi della situazione in ambito teologico e filosofico, il Papa condannò l’abate Jacob Frohschammer, professore di filosofia all’università di Monaco, perché accordava “alla ragione umana forze che non le competono affatto”, traendone la conseguenza d’una libertà senza freni, con pregiudizio per “i diritti, le funzioni e l’autorità della Chiesa”. Tale condanna s’inseriva nel contesto d’altre severe prese di posizione nei confronti di tutta la corrente liberaloide tedesca, ma anche francese e belga. Il tempo era ormai maturo per una condanna a più vasto raggio, la qual cosa avvenne 1’8 dicembre 1864 con 1’enciclica Quanta cura e con il Sillabo. Questo, anche perché non datato, seguiva l’enciclica come un suo allegato. Ne faceva parte, dunque.
L’enciclica richiamava ancora una volta l’attenzione del mondo cattolico sui pericoli che correva la Fede cristiana a causa del propalarsi, a livelli sempre meno controllabili, d’errori gravissimi. Ancora una volta era messo a fuoco il naturalismo, che sopprime ogni legame tra società e religione; la libertà di coscienza e di culto, che già sant’Agostino aveva definito “libertà di perdizione”; l’estromissione della Chiesa da ogni compito educativo nei confronti dei giovani, che veniva riservato soltanto allo Stato; la sottomissione di essa, privata dei suoi nativi diritti temporali, allo Stato stesso; la negazione della divinità di Cristo. Pio IX parlava a tale riguardo d’ “insolenza criminale” e di “cospirazione…contro il Cattolicesimo e la Sede Apostolica”.
Il Sillabo, richiamandosi ai precedenti atti papali d’analogo contenuto, condensava in 80 proposizioni, queste distinguendo in 10 settori, tutte riguardanti la “cospirazione” sopra accennata. In particolare cadevano sotto condanna:
– il naturalismo, il panteismo ed il razionalismo assoluto;
– il naturalismo moderato, con riferimento a Gunther, Frohschammer, Dollinger ed altri;
– l’indifferentismo ed il latitudinarismo;
– il socialismo, il comunismo, le società segrete ed altre società clerico-liberali;
– le idee eversive della natura della Chiesa e negatrici dei suoi diritti;
– gli errori sulla natura della società civile, specie su quello che asservisce la Chiesa allo Stato;
– gli errori relativi alla morale naturale e cristiana;
– gli errori sul matrimonio cristiano;
– gli errori sul potere temporale del Romano Pontefice;
– gli errori che sottopongono il Papa e la Chiesa al progresso, al liberalismo, ed alla moderna civilizzazione.
Come si sa, tanto l’enciclica quanto e soprattutto il suo elenco degli errori moderni suscitarono (e tuttora suscitano) un’infinità di critiche. Ne risenti la stessa causa di beatificazione, almeno nel senso che anche tali critiche contribuirono ad allungarne smisuratamente i tempi. Dico smisuratamente, perché le critiche si son poi rivelate, tutto sommato, infondate. A giustificarle non era certo sufficiente il taglio netto dell’espressione formale e meno ancora qualche sbrigativa ricostruzione delle posizioni condannate. Era ed è del pari riduttivo il giudizio sul Sillabo inteso come forma puramente negativa del magistero di Pio IX. Gli elementari criteri d’ermeneutica insegnano che da una dottrina condannata si desume la vera, d’altra parte, di magistero al positivo è pieno il pontificato di papa Mastai.
Bisogna inoltre capir bene che cosa Pio IX intendesse colpire: non il sacrario inviolabile della coscienza, ma l’indifferentismo religioso e non si riesce a spiegare come e perché un teologo del calibro di Y. Congar, senza calarsi nell’atmosfera piana, abbia messo in antitesi il Sillabo e la dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano 2. Chi infatti si colloca nell’ottica di Pio IX, non solo non contrappone i due documenti, ma potrebbe perfino individuare un passaggio logico (alludo alla “logica della Fede”) dall’uno all’altro.
E’ doveroso infine osservare un’altra fondamentale legge interpretativa: nessuno è autorizzato a leggere con gli occhi d’oggi i fatti di ieri. Lo storico in questo si distingue dal cronista: ricupera la mentalità e la cultura del periodo studiato e dei protagonisti in esso operanti. Se qualcuno non lo fa, il suo Pio IX resta sospeso all’alea della manomissione, dell’incomprensione, ed in ultima analisi della falsificazione.
Cap. 4 – Il Santo
La spiritualità di Pio IX, già ben definita negli anni della giovinezza (che pur conobbe in Lui alti e bassi e non fu priva di pericoli e tentazioni) venne affinandosi nel tempo. E’ una legge comune: nessuno nasce con l’aureola. Quando Pio IX morì, l’accompagnava alla tomba non solo l’odio bieco ed astioso dell’anticlericalismo piazzaiolo, ma anche e soprattutto una fama di santità, diffusissima e al di sopra di ogni sospetto. “E’ morto un santo”, fu il grido che attraversò l’orbe cattolico; e non mancarono riconoscimenti in tal senso anche da parte acattolica. Don Bosco, che gli era stato vicino e lo conosceva a fondo, pronosticò subito la gloria degli altari.
Dopo un esame minuzioso e lungo quasi un secolo, la Chiesa scioglie oggi ogni riserva e lo proclama pubblicamente beato.
Il lettore, tuttavia, ha diritto di sapere su quali basi.
1 – Un vero prete
Sono innumerevoli le grazie attribuite al grande Pontefice sia prima, sia dopo la sua morte. Certo, nessuna di esse può esser addotta a fondamento della sua santità, anche se è un indice della richiesta “Fama sanctitatis”: il fondamento unico ed irrefragabile della santità è “la perfezione della carità”. E’ questa l’angolatura dalla quale occorre posare lo sguardo su Pio IX, nel chiedersi se fosse o meno un vero santo.
Tuttavia, nel complesso delle grazie sopra accennate ce n’è una che, attentamente analizzata e valutata dalla Consulta Medica della Congregazione per le Cause dei Santi, è stata dichiarata miracolo. La detta Consulta, infatti, I’ha definita naturalmente e scientificamente inspiegabile. Da questa base è poi partito il giudizio teologico per approdare al miracolo e riconoscere in esso il dito di Dio, ossia l’avallo soprannaturale del giudizio di santità.
Sopra ho accennato alla perfezione della carità; santo infatti non è colui che va in estasi e sposta le montagne, ma colui che ama Dio al di sopra di tutto e di tutti e tutti gli altri per amore di Dio. E proprio questa è la nota che rifulge nella personalità di Pio IX: amava Dio immensamente, intensamente e, sotto certi aspetti, fanciullescamente traducendo il suo medesimo amore di Dio in amore del prossimo, di qualunque prossimo anche dei suoi nemici. Fu così nel fervore dei suoi anni verdi, preludio di ciò che sarebbe maturato negli anni del suo ministero vescovile e papale, fino alla vecchiaia e alla morte.
Pio IX vegliardo.
Foto di Enrico Battista Canè, 1877. Dall’album conservato nel Museo Pio IX al Palazzo Mastai di Senigallia.
Visse il suo eccezionale momento storico, così ricco d’eventi che cambiarono il corso della storia in Italia, nella Chiesa e nel mondo, in perfetta amorosa unione con Dio ed altrettanto amorosa disponibilità per gli altri. In mezzo a vicende che oltrepassavano di gran lunga il limite dell’ordinario, oggetto non di rado d’accuse ingenerose e di lotte a tutto campo, continuava a dar il suo alto esempio d’amor di Dio e del prossimo, in tutto e per tutto abbandonato alla divina Provvidenza. Tale abbandono, che a qualcuno è sembrato debolezza, “mancanza di senso politico, pericoloso misticismo, attesa inerte e passiva”. era la sua arma politica. Non soggiaceva alla prepotenza, ma la collocava nel Cuore del suo Cristo e tutto risolveva in un atto d’amore.
Quando poi parlava del divino Amore, voce e gesti s’infiammavano a tal punto che l’uditorio ne rimaneva conquiso e commosso.
Il suo amore per il prossimo come riflesso e testimonianza di quello per Dio non era mai puramente verbale, ma concreto e risolutivo. Mite, buono e comprensivo, a quanti ne avessero bisogno lasciava dietro i suoi passi un aiuto che superava talvolta le attese. E’ risaputa la sua carità per le claustrali e le religiose in genere; ma anche per i poveri, i perseguitati, i prigionieri. Lenì più volte i deleteri effetti della guerra, sottrasse alla cattura da parte degli Austriaci non pochi rivoluzionari in fuga, raccomandò e per quanto era in suo potere Egli stesso concesse condoni e riduzioni di pene. Visitò gli ammalati e non esitò ad assistere personalmente i colerosi dei vari ospedali. Non solo disse parole di pace e di perdono ai garibaldini, prigionieri dopo la battaglia di Mentana in Castel Sant’Angelo, ma li rifornì anche di cibo e di vestiario ed infine li fece rimetter in libertà. Ho già ricordato che passeggiava per Roma con accanto il Segretario, nelle cui mani era sempre una borsa per sovvenire ai bisognosi che incontrava.
Pensò perfino a forme di pensionamento, non ancora previste nemmeno dagli ordinamenti più avanzati dell’epoca, per quei civili e militari della vecchia amministrazione pontificia, che dopo l’occupazione di Roma non avevano aderito al nuovo governo.
Ma fu soprattutto un prete. Un prete vero, perché “uomo di Dio” (2Tm 3,17) tutto preso dal suo amore e votato al bene degli altri. Per i preti ebbe sempre speciali preoccupazioni. Curò la formazione sacerdotale, promosse i seminari, caldeggiò i buoni studi. Certo, non poté risolvere tuttti problemi da Lui incontrati, benché tutto facesse quant’era nelle sue possibilità per risolverli. Ebbe anch’egli, come uomo, i condizionamenti della sua natura; e come papa, i problemi immani dell’epoca in trapasso, cui rispondeva come sapeva e poteva. Ma su una cosa dovrebbero tutti concordare sostenitori e critici: sul fatto che fu prete esemplare, specchio delle più belle virtù sacerdotali e cristiane.
Specie negli ultimi anni del suo pontificato, crebbe la considerazione comune della sua santità in base alle sue virtù. Peccato, umanamente parlando, che il riconoscimento ufficiale di esse sia venuto così tardi !
2 – Pio di nome e di fatto
Se la carità ebbe tanto rilievo nella sua vita, fu perché tutto il complesso delle sue virtù trovò in essa la sua radice e la sua sintesi. Fu vibrante d’amore, quindi fu pieno di fede e di speranza, proiettato in Dio e sicuro del suo aiuto, da Lui solo attendendo la soluzione umanamente impossibile dei suoi gravissimi problemi. Dio solo cercava quando opponeva un irremovibile no all’onda montante del liberalismo anticlericale, del secolarismo che addormentava il senso religioso dell’esistenza e dell’ormai diffuso ateismo. Dio era la sola motivazione del suo tetragono atteggiamento di resistenza agli eventi inarrestabili, per cui anteponeva i diritti della Chiesa, della religione cristiana e delle Sede Apostolica, della stessa legge naturale ad ogni prospettiva secolarizzante. Fu e visse soltanto come “homo Dei”.
Incarnò nel suo tenore quotidiano la pietà non soltanto come ragione del suo personale rapporto con Dio, la Vergine Immacolata, San Giuseppe ed altri Santi, ma anche come punto di riferimento e faro del suo senso pratico, del suo dovere d’ogni giorno e degli imprevisti che, pure ogni giorno, s’affacciavano sull’ingresso della sua stanza di lavoro.
“Non è un mistico – è stato scritto – o un asceta nel senso stretto dei termini quantunque le sue effusioni spirituali, che si rintracciano dovunque nelle sue lettere e nei suoi discorsi, possano talora farlo pensare, ma è un uomo che aspira del continuo alla perfezione”. Forse si voleva soltanto osservare che era non privo di qualche difetto, ma deciso ad emendarsene, tanto da aspirare “del continuo alla perfezione”. Lo strumento da Lui a tal fine adoperato, il rimedio assunto, continua il medesimo biografo, “è la preghiera; in ogni evenienza prega e fa pregare; Egli è principalmente l’uomo della preghiera…Tale sarà sempre fino alla morte”.
Da questa sua qualità di orante discendono alcuni indirizzi particolari che, nulla togliendo all’insieme e nulla al centro della sua religiosità, la specificano e ne definiscono le componenti varie. Fin da giovane, il Mastai si rivelò devotissimo del Sacro Cuor di Gesù e fin dai primissimi anni del suo ministero episcopale s’impegno a diffondere questa devozione. Ne percepiva con chiarezza il senso teologico. Sapeva che ogni omaggio al Sacro Cuore ridondava sulla persona adorabile di Cristo e sulla sua umanità sacrosanta. Ne derivava non solo il suo devoto atteggiamento, ma anche lo zelo con cui ne parlava ed operava. E’ qui praticamente impossibile riferire quanto Egli fece per il Sacro Cuore; ma non posso tacere su alcuni discorsi da Lui tenuti agli albori del suo presbiterato e come piattaforma del suo sviluppo futuro. Si tratta di due tridui, già nei quali il Sacro Cuore si poneva in evidenza come un chiaro coefficiente della sua spiritualità, la quale pertanto già preludeva alle caratteristiche e dimensioni che avrebbe assunto in seguito. E quante opere videro la luce, da Lui promosse o da Lui approvate, riguardanti il Sacro Cuore: confraternite, chiese, famiglie religiose. Si capisce così la ragione per la quale consacrò al Sacro Cuore la Chiesa.
Un altro aspetto non meno significativo del suo orientamento spirituale è la devozione alla Madonna. Anche questa seppe ben radicare in opportune ragioni teologiche ed innestare sul suo costume personale, come un’espressione tipica di esso. Era una delle devozioni nate nel suo animo fin dalla fanciullezza; e fu il suo distintivo per tutta la vita. Avrebbe potuto ben dire anch’Egli: “Totus tuus”; era davvero tutto di Maria. A Lei riferiva tutto quanto ebbe una speciale rilevanza nella sua lunga giornata: la guarigione da una malattia che per qualcuno fu epilessia, anche se la fondatezza di tale diagnosi non fu mai dimostrata, la vocazione sacerdotale, l’episcopato spoletino ed imolese; la stessa porpora cardinalizia. Sotto il manto della Vergine Immacolata e segnatamente della Madonna di Loreto Egli pose poi il suo ministero papale. Tutta la sua esistenza si svolse in atmosfera mariana.
Si conoscono, inoltre, i suoi discorsi giovanili su Maria Assunta in cielo. Col loro impianto biblico-teologico, già preludevano al suo futuro e ben consolidato convincimento circa il vincolo esistente tra Immacolata Concezione ed Assunzione. Ho già ricordato codesto convincimento. Nel 1864 ne parlò una volta alla Regina di Spagna, che già pregustava la gioia d’una nuova definizione dogmatica: “Non c’è dubbio che l’Assunzione…è una conseguenza del dogma della sua Concezione Immacolata…io non mi credo degno istrumento per pubblicare come dogma anche questo secondo Mistero; ma tempo verrà…” La medesima speranza aveva del resto espresso in altre occasioni, anche molto prima.
In un certo senso, Maria era nel suo cuore; la causa di Lei faceva parte di Lui, perciò non poteva non parlarne e lo faceva non senza personale trasporto.
La storiografia ricorda anche la sua devozione a San Giuseppe, che culminò, 1’8 dicembre 1870, con la proclamazione del verginale Sposo di Maria a patrono della Chiesa universale.
Ma il giudizio sulla sua spiritualità né si evince del tutto da queste sue devozioni, né s’esaurisce in esse. Queste, anzi, potettero sussistere solo grazie alla qualità teologale della sua vita. Era davvero “I’uomo di Dio” tutto proteso verso di Lui; Dio, a sua volta, era nell’intimo del suo Servo fedele: la sua forza, la sua luce, la ragione unica del suo essere ed operare. Se qualcuno continuerà a valutarlo prescindendo da questo rapporto, continuerà pure a non capirlo e a diffonderne un’immagine irreale.
E’ un rapporto, del resto, che traspare da tutte le sue scelte: non solo, e son le più importanti, da quelle decise sul soglio di Pietro, ma anche da quelle anteriori, queste pure colme dello stesso significato. Son le scelte che hanno in Dio il loro senso e la loro motivazione. Si, la loro causa immediata, che forse sarebbe meglio chiamare occasione, è riconoscibile nei gravi problemi che Pio IX dovette affrontare, nelle non facili relazioni inteme ed esterne della Chiesa, nelle mire nemmeno tanto coperte del mondo massonico ed anticlericale, ma la causa profonda è quella che tutto riconduceva a Dio e alla “pietas” filiale del novello Beato verso di Lui.
Non posso terminare questo paragrafo senza accennare, almeno di sfuggita, ad un’altra componente della sua spiritualità: la direzione delle anime. Figurano tra queste molte religiose: Sr. Castellano di Spoleto, Sr. Rosa Felice Mayer di Fognano, Sr Maria Nazarena Zampieri di Santo Stefano in Imola, Sr. Chiara Teresa del Sacro Cuore di Maria di Montefalco. E tante altre ancora. Logicamente, tale direzione non si fermò alle Religiose. Erano i virgulti del giardino di Dio, dovunque si trovassero, ad esser da Lui coltivati. Giovani, seminaristi, preti, personalità insigni o no, trovarono nella persona del Mastai il “cultore” illuminato e pio. Il fatto è che il Santo comunica sempre, per via diretta o per le articolazioni misteriose della Comunione dei Santi, i segreti e i benefici della santità. E Pio IX, in codesta comunicazione, si distinse egregiamente.
3 – La Causa di Beatificazione
Ufficialmente ebbe inizio nel 1907 e terminò nel 1999 con la lettura del decreto d’approvazione del miracolo attribuito all’intercessione del Ven. Servo di Dio Papa Pio IX. In seguito alla sua beatificazione, s’apre un’altra fase, I’ultima o della canonizzazione, che gli darà il titolo di Santo.
Al di fuori dell’ufficialità, il Terzo Ordine francescano di Vienna, 1’8 febbraio 1878, ad appena 24 ore dalla morte del santo Pontefice, espresse l’augurio che “il Padre di tutta la cristianità potesse esser beatificato senz’alcun indugio”. Tale era anche l’augurio di tutto l’episcopato austriaco, come risulta da lettere inviate a Roma uno o due giorni dopo il luttuoso 7 febbraio. Ed in ultima analisi era anche l’augurio di tutto l’Orbe cattolico, perfino in quei suoi strati che non avevan sempre condiviso alcune scelte di politica ecclesiastica di papa Mastai, ma non nutrivano alcun dubbio sulla sua santità.
Un’istanza simile a quella del Terzo Ordine francescano, al quale Pio IX apparteneva, fu rivolta all’arcivescovo di Palermo da fedeli di quella diocesi. Altra riprova della “Fama sanctitatis” di cui il Pontefice godeva sua vita natural durante e che non s’era spenta dopo la sua morte.
In forma canonicamente corretta ed ufficiale, la prima vera istanza di beatificazione fu quella dell’episcopato veneto, del 24 maggio 1878, cioè ad appena quattro mesi dalla morte di Pio IX. In essa si legge che papa Mastai esercitò le virtù teologali e morali “in modo così elevato da meritare d’esser proposto come modello ed esser venerato come santo”. Seguirono analoghe domande da parte dei vescovi canadesi, del vescovo di Napoli e dei vescovi d’altre diocesi. Da allora in poi, una vera pioggia di “Lettere postulatorie” s’è riversata sulla Santa Sede.
Leone XIII rimase però esitante. La questione politica era ancora aperta. Non parve invece esitante San Pio X il quale, nel cinquantenario del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, promosse le inchieste preliminari sulla fama di santità e sul suo fondamento (virtù in grado eroico e miracoli) del proprio predecessore Pio IX.
Tre anni dopo, nel 1907, ebbe inizio il vero processo informativo, il cui primo postulatore fu Mons. Antonio Cani. Dal 1907 al 1922 vennero escussi 83 testi. Dal 1908 al 1915 fu celebrato un processo rogatoriale a Senigallia con l’escussione di 16 testi. Nel 1916 il processo rogatoriale di Spoleto arricchì la causa d’altri 24 testi. Ad Imola, ancora un processo rogatoriale che, protrattosi dal 1908 al 1916, raccolse le testimonianze d’altri 29 testi; infine quello di Napoli, dal 1907 al 1913, fu confortato dalla disponibilità di ben 91 testi. Nel complesso si trattò di 243 testimonianze “de visu vel de auditu a videntibus”, tutte cioè di persone che avevano avuto rapporti col Servo di Dio o conservavano il ricordo di testimoni diretti, rilasciate da ecclesiastici e da non pochi laici, sull’attendibilità dei quali nessuna ombra è possibile sollevare.
L’enorme materiale raccolto confluì quindi in una ponderosa positio: ben 12 grossissimi volumi.
Nel 1952 il patrono della causa, Mons. Giuseppe Stella, ne estrasse il Summarium: 1159 pagine che, esaminate in ogni loro particolare, portarono il 7 dicembre 1954 al decreto per 1’introduzione della causa, cioè per la fase apostolica del processo.
Questa fu celebrata dal 1955 al 1956 con 1’escussione d’altri 19 testi sulle virtù in grado eroico e sui “miracoli” di papa Mastai. Il postulatore d’allora, Mons. Alberto Canestri, pubblicò un ragguaglio di ben 133 “miracoli” attribuiti all’intercessione del Servo di Dio Papa Pio IX.
I1 25 ottobre 1956 ci fu un altro dei previsti adempimenti: 1’esumazione e il riconoscimento della salma. Tra i presenti si notarono il card. vicario Micara, il prefetto della Congregazione dei Riti card. Cicognani, il prefetto della Congregazione dei Religiosi card. Valeri, il postulatore Mons. Canestri ed altri prelati. Con manifesta gioia degli astanti, il venerato corpo fu trovato intatto ed il fatto fu rilevato anche dai rappresentanti della stampa quotidiana, li presenti. Il 23 novembre le sacre spoglie vennero nuovamente ricomposte nella tomba.
La causa riprese il suo corso. Tre sedute (o congregazioni) dovevano esser dedicate all’esame delle virtù in grado eroico: l’antepreparatoria, la preparatoria e la generale. La prima si tenne il 2 ottobre 1962; la seconda il 28 maggio 1963; ma la terza tardò a riunirsi.
Morto nel 1971 Mons. Canestri, il 31 maggio gli subentrò nell’incarico di postulatore Mons. Antonio Piolanti, già Rettor Magnifico della Pontificia Università Lateranense. La causa ne ebbe subito un nuovo impulso e nuova vitalità. Nel 1972 Mons. Piolanti fondò la rivista Pio IX, che avrebbe dato un contributo inestimabile, se pur indirettamente, alla causa in atto. Poco dopo, nel 1975, fece la sua comparsa il primo volume della collana Studi piani, fondata anch’essa e diretta dall’infaticabile Postulatore.
Dopo che quattro cardinali (Pietro Parente, Sergio Guerri, Umberto Mozzoni e Pietro Palazzini) il 6 novembre 1973 inoltrarono una supplica al papa Paolo VI perché disponesse la ripresa della causa, il promotore generale della Fede P. Pérez Femandez, sollecitato ancora dai card. Palazzini e Parente, fece conoscere le 13 obiezioni emerse durante le sedute antepreparatoria e preparatoria; era il 15 aprile del 1974. La postulazione nominò allora un nuovo Patrono nella persona dello svizzero avv. Carlo Snider il quale, il 7 ottobre 1984, presentò una risposta esauriente ed ineccepibile, anche sul piano metodologico, ad ognuna delle 13 obiezioni.
Poté aver luogo allora la terza congregazione, quella generale, che 1’11 dicembre 1984 si pronunciò affermativamente sul quesito: “Se consti che il Servo di Dio Giovanni
Maria Mastai Ferretti papa Pio IX abbia esercitato in grado eroico le virtù teologali della Fede, della Speranza e della Carità verso Dio e verso il prossimo; le virtù cardinali della Prudenza, della Giustizia, della Temperanza e della Fortezza; nonché le virtù con esse collegate”. Avutane risposta affermativa, il Santo Padre Giovanni Paolo 2 ordinò allora il decreto sull’eroicità delle virtù che, firmato dal Card. Palazzini, prefetto della Congregazione per le cause dei Santi, e da S. E. Mons. Traiano Crisan, segretario, fu reso di pubblica ragione il 6 luglio 1985. Da quel momento il Servo di Dio Pio IX era di fatto e di diritto insignito del titolo di “Venerabile”.
Non era ancora, però, “Beato”. Le cose, tuttavia, se pur lentamente s’avviarono verso l’epilogo da tutti sperato. I1 15 gennaio 1986 la Consulta medica della Congregazione per le cause dei Santi attestò l’inspiegabilità naturale e scientifica della guarigione di Sr. Marie-Thérèse de St-Paul, carmelitana di Nantes, la quale si dichiarava miracolosamente (cioè d`improvviso, completamente, senza ricadute né uso di farmaci) guarita da grave malattia ossea.
Quando tutto pareva ormai pronto, un nuovo sussulto di scrupolosità portò alla costituzione (nel 1987) d’una nuova speciale commissione di 7 membri, che avrebbero dovuto pronunziarsi sull’opportunità della beatificazione. Al termine della quarta seduta, la commissione passò alla votazione: 5 membri di essa furono per il si, uno per il si con riserva ed uno solo nettamente negativo. Bastò questo per bloccare di nuovo, se pur momentaneamente, la felice conclusione d’un iter quasi centenario.
Finalmente il 21 dicembre 1999 papa Vojtyla promulgò il decreto sul miracolo di cui sopra e, successivamente, stabilì il giorno tanto atteso della beatificazione: il 3 settembre del 2000,1’anno del Grande Giubileo.
Iter concluso? Come ho detto, quello della beatificazione ne apre un altro che si concluderà, a Dio piacendo, con la canonizzazione. Si può solo sperare che non duri quanto il precedente.
Osservazioni conclusive
Tra gli scopi di questa pubblicazione, dichiarati in partenza, c’era anche quello di sapere che senso la beatificazione di Pio IX potesse avere per la Chiesa e per il mondo d’oggi. Non mi pare che, per rispondere alla domanda, ci sia bisogno di molta fatica.
I – Non c’ è dubbio che, nella beatificazione di Pio IX, sia anzitutto doveroso scorgere un atto di giustizia. Un atto, cioè, con cui la Chiesa Gli rende giustizia dinanzi al mondo e alla storia, perché ognuno capisca.
Mi spiego. “Atto di giustizia” non significa che Pio IX avesse acquisito un diritto alla sua beatificazione; “atto di giustizia” si, ma non in questo senso. Per quanto grandi, o addirittura eccezionali possano esser i meriti e le virtù d’un cristiano, mai costui, o altri per lui, potrà rivendicare un suo diritto all’onore degli altari. Davanti a Dio anche il santo è spoglio di diritti, perché Dio stesso dona ciò per cui premia. E quando ciò la Chiesa riconosce nella vita d’un suo figlio, non ne riconosce i diritti, ma la grazia e la fedeltà ad essa. Inoltre, alla Chiesa spetta soltanto il compito d’indagare su tale fedeltà e di decidere poi se, con riferimento al grado eroico della fedeltà stessa, quel suo figlio possa (non debba) esser proclamato santo. Così è avvenuto per ogni santo; così anche per Pio IX. La sua beatificazione, dunque, non appartiene alla giustizia distributiva e retributiva, che riconosce gli altrui diritti e dà a ciascuno il suo.
Il concetto di giustizia, tuttavia, non è univoco, ma complesso. C’è anche la giustizia che risponde al sentimento naturale del giusto e si chiama equità, perché è applicata in considerazione non dei soli principi astratti, ma anche della loro concreta e possibile attuazione nel tempo. Essa ristabilisce l’ordine eventualmente violato, riconferma la verità prima taciuta o esagerata, riconosce meriti o demeriti ingiustamente ignorati o non obiettivamente valutati.
Il chiedersi quante valutazioni malevole, deformanti la verità o assolutamente infondate han colpito Pio IX dagli anni della sua giovinezza ad oggi, è del tutto superfluo. Bastò la notizia della sua beatificazione perché subito e sempre di nuovo 1′ “inimica vis” del settarismo preconcetto rispolverasse accuse vecchie ed inconsistenti, perdendo perfino la faccia con l’inaudita impudenza di dettar legge al Papa o quanto meno insegnargli l’atteggiamento da tenere.
Questa è la giustizia alla quale, moralmente parlando, Pio IX aveva diritto ed alla quale la Chiesa ha voluto corrispondere dinanzi ai suoi figli e al mondo intero. La beatificazione, in effetti, ristabilisce la giusta visione delle cose, superando e neutralizzando ogni visione distorta di esse. La beatificazione diventa pertanto, sulla base della verità provata, anche un giudizio di merito circa la figura e l’opera del Mastai sottraendolo al morso della denigrazione sistematica, riaffermando la cristallina moralità delle sue scelte e della sua vita, riproponendo in benedizione il suo ricordo.
2 – Va detto, peraltro, che la beatificazione di Pio IX ha significati più propri. Esattamente come qualunque altra beatificazione, sebbene con tonalità specifiche e personali.
Quando la Chiesa proclama un beato o lo canonizza, non a caso procede ordinariamente sulla via delle virtù cristiane eroicamente esercitate. Nel giudizio della Chiesa, il beato ed il santo assurgono a luminosi esemplari di testimonianza cristiana, d’esperienza teologale nella fede, nella speranza e nella carità, ad autentici eroi delle virtù cardinali, dell’umiltà, della povertà, castità ed obbedienza. Ogni nuovo iscritto nell’albo dei beati e dei santi ne esce, per così dire, con la sua carica forte e discreta d’esemplarità, per collocarsi accanto ad ognuno di noi come modello da ammirare ed imitare. Ed ognuno, per qualche sua peculiare ragione, oltre che per quell’esemplarità che è comune a tutti, ieri oggi e domani: la fedeltà al comandamento nuovo dell’amore (Gv 13,34).
Anche Pio IX, per il solo fatto d’esser proclamato beato, viene innalzato sul piedistallo ed additato a modello di tutto il popolo di Dio. Anche in Lui l’esemplarità va oltre il limite dei valori comuni ad ogni santo. C’è anche in Lui una specificità che ne definisce l’immagine e la singolarizza nello sconfinato firmamento dei santi e dei beati. Non si tratta d’una sola qualità particolare; la sua è una specificità talmente ricca che è anche poco agevole restringerla in poche parole. Penso alla fedeltà eroica del suo rapporto con il patrimonio delle verità rivelate; alla sua incrollabile Fede, matrice dell’ “imperterrita serenità” già ricordata; al suo abbandono nelle mani della divina Provvidenza, tanto più insistente e significativo, quanto piu difficile fosse la contingenza negativa che lo suggeriva; al suo trasporto d’amore per il Padre e i fratelli; alla nota eucaristico-mariana della sua spiritualità; al suo indomito impegno per la Chiesa e la Sede apostolica, dettato soltanto da motivi di Fede; alla sua invitta difesa dei diritti di Dio e del suo Vicario in terra: sono questi gli aspetti salienti della sua specificità, questi i motivi per i quali la sua dolce e mite figura s’impone all’ammirazione di tutti e all’imitazione dei cristiani.
3 – Per motivi diversi, che talvolta sembrano aver rovesciato la situazione di oggi rispetto a quella di papa Mastai, non meno urgente appare la “invitta difesa” alla quale ho sopra accennato, ammirevole anch’essa ed imitabile secondo lo spirito e la prassi d’assoluta gratuità con cui la mise in atto Pio IX. Nessun segno in Lui di quell’orgoglio dinastico che, entro i limiti della giustizia e dell’equità, giustifica la difesa della corona ereditata. Nessuna montatura nazionalista e “sciovinista”. Egli non difendeva il suo, ma quell’indipendenza anche temporale che consentiva alla Chiesa di comunicare liberamente col mondo e diffondere ovunque la Fede.
Né ha molta importanza il fatto che, edotti dall’esperienza storica, si sia oggi capito quanto poco bisogno la Chiesa avesse, anche allora, del potere temporale e d’una più o meno grande autonomia geografica per la libertà della sua azione evangelizzatrice. Pio IX non poteva rendersi conto di ciò che solo in seguito si sarebbe acquisito. Parlava da uomo del suo tempo, con una visione delle cose nettamente diversa da quella attuale e soprattutto con la chiara consapevolezza di chi, avuto un patrimonio culturale e spirituale da salvaguardare, fa di tale salvaguardia un suo punto d’onore. Tutta la sua intelligenza infatti, la sua sagacia, la sua forza d’animo Egli impegnò a tal fine.
4 – Giovanni Spadolini, eminente uomo politico e statista di non piccolo spessore che sia pur impropriamente ricorreva all’aggettivo “laico” per definirsi estraneo a qualunque posizione confessionale, riconobbe che “Pio IX mostrava di comprendere che una rinascita cattolica sarebbe partita soltanto da Roma e che solo Roma, sia pure la Roma ideale del magistero vaticano, poteva assicurare l’unità di tutte le falangi cattoliche inquiete, divise e ondeggianti, poteva scongiurare tutte quelle molteplici tendenze economiche, geografiche, politiche che favorivano gli scismi, che guardavano alle chiese nazionali, che puntavano verso la riduzione del cattolicesimo ad una cappellania degli Stati”. E scrisse ancora: “Il merito storico di Pio IX fu quello d’aver compreso che la causa del Papato poteva esser salvata sul piano universalistico della Fede e che nessuna combinazione diplomatica sarebbe riuscita ad evitare il particolarismo degli Stati, a scongiurare il trionfo delle nazionalità, a prevenire il successivo definirsi e differenziarsi dei blocchi”.
E’ questo un giudizio che ribalta, nonostante la non familiarità del “laico” Spadolini con la proprietà del linguaggio “cattolico”, i giudizi d’inettitudine politica troppo spesso formulati contro Pio IX. Il grande politico e storico dell’epoca moderna seppe, come non molti altri, penetrare a fondo nell’animo di papa Mastai per trame motivi d’ammirazione e di valutazioni obiettive e serene. Capì lo stretto legame tra politica e Fede che caratterizzò il pensiero e l’azione di Pio IX; e capi pure che qualunque fosse la scelta politica da compiere, Egli non avrebbe mai potuto discostarsi con essa e per essa dall’universalismo della Fede.
La visione universalistica di Pio IX è oggi il titolo dell’azione pastorale e culturale della Chiesa. Anche per questo la Chiesa celebra in Lui il servo fedele che le apri le strade del futuro.
Appendice
Martedì, 4 aprile 2000, nella Cripta della stupenda Basilica romanica di S. Lorenzo fuori le Mura, in Roma, da poco riportata al suo originario splendore, s’effettuò il pio adempimento del rito che precede ogni beatificazione e canonizzazione: la ricognizione dei resti mortali del Ven. Servo di Dio Pio IX. Lì, infatti, il Papa dell’Immacolata e del Concilio Vaticano I aveva deciso d’esser sepolto, per rimaner sempre accanto ai suoi figli sino al giorno della risurrezione finale.
Il Tribunale Diocesano di Roma era presente per competenza nelle persone del Presidente, il Rev.mo Mons. Dr. Gianfranco Bella; del Promotore di Giustizia Sac. Giuseppe D’Alonso; e del Cancelliere Cav. Giuseppe Gobbi.
Con il Postulatore della Causa, Mons. Brunero Gherardini, eran pure presenti S.E. Rev.ma il sig. Card. Jorge Arturo Medina Estévez, prefetto della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti; I’Ecc.mo Segretario della medesima, Mons. Francesco Pio Tamburrino; il Vescovo emerito di Senigallia, Mons. Odo Fusi Pecci unitamente ad una rappresentanza di sacerdoti senigalliesi; alcuni membri della Curia Romana, tra i quali S. E. Rev.ma Mons. Luigi De Magistris, Reggente della Penitenzieria Apostolica e Mons. Carlo Liberati, ufficiale della Congregazione per le Cause dei Santi. Il Rev.mo Capitolo Vaticano era rappresentato dai Cann. Mons. Jesus Irigoyen e Michele Basso; i Padri Cappuccini, alla cui custodia è affidata la tomba del novello Beato, daiRev.di PP. Marco Luigi Volpi e Sergio Martina. Presenti eran pure alcuni ecclesiastici stranieri e la ND Patrizia Flaminia Torlonia, nipote di Papa Mastai Ferretti.
Alle ore 10,15, dopo una breve preghiera, il Rev.mo Mons. Bella dette lettura degli atti in base ai quali si poteva procedere alla ricognizione ed autorizzò l’inizio del rito. La bara, in tutto corrispondente ai dati descritti nel rogito del 1956, fu fatta estrarre dal loculo in cui giaceva e, quindi, venne processionalmente portata in una sala interna del Convento, riservata dai PP. Cappuccini per le operazioni del caso.
Qui giunti, Mons. Bella, d’accordo con il Chiar.mo Prof. Amaldo Capelli anatomo-patologo della Facoltà di Medicina dell’Università del Sacro Cuore in Roma, e con la collaborazione dell’Ill.mo Dr. Comm. Nazareno Gabrielli, del Gabinetto ricerche scientifiche dei Musei Vaticani, dispose l’apertura della cassa funebre, consistente in una robusta ricopertura di rame a protezione della vera cassa di legno. Niente di particolarmente pregiato; il tutto, anzi, rivelò la caratteristica della semplicità, così cara a Pio IX.
Ad un tratto la commossa attesa dei presenti esplose in un canto liturgico: tolti i sigilli e sollevato il coperchio, la Venerata Salma apparve, serenamente composta e perfettamente conservata. Così era stata riscontrata anche nella precedente ricognizione del 1956, alla quale aveva partecipato, unica fra tutti i presenti, anche la ricordata principessa Torlonia.
Il Rev.mo Postulatore prese, intanto, in custodia le trentadue monete di bronzo che testimoniano il più lungo pontificato della storia, la croce pettorale e l’anello in non perfetto stato di conservazione, perché, riportato il tutto al suo primo splendore, possa esser nuovamente inserito nella nuova cassa sepolcrale.
Ogni fase della complessa ricognizione venne ovviamente fotografata per l’opportuna documentazione. Nei giorni successivi, a varie riprese, gl’illustri periti sopra menzionati provvidero alla pulizia generale, mediante trattamento chimico, della Salma che, rivestita di nuovi indumenti a sostituzione dei precedenti che Pio XII aveva messo a disposizione nel 1956, venne poi deposta (2 giugno 2000) in una ammirevole urna di cristallo e riportata nella cripta di San Lorenzo, in posizione più consona a