31 Maggio 2013
24 Maggio 2013
20 Maggio 2013
Papa Francesco ha fatto preghiere di liberazione dal Demonio in piazza San Pietro
Siamo in piazza San Pietro, esattamente nei pressi dell’Arco delle Campane. La Santa Messa di Pentecoste (domenica 19 maggio 2013) è finita da poco. Papa Francesco si avvia – come al solito – verso i malati che hanno partecipato alla celebrazione. Il Pontefice si avvicina ad un ragazzo. Il sacerdote che lo accompagna lo presenta al Papa con qualche parola che non si riesce a cogliere. Ma l’espressione di Francesco cambia improvvisamente. Il Papa appare pensoso e concentrato e stende le mani sul giovane pregando intensamente.
Gli esorcisti che hanno visto le immagini che qui riportiamo non hanno dubbi: si è trattato di una preghiera di liberazione dal Maligno o di un vero e proprio esorcismo.
19 Maggio 2013
Ricordati di santificare le feste. Il terzo comandamento. 2024
Ed eccoci al terzo comandamento con il quale si chiude la prima tavola della Legge data da Dio a Mosè sul monte Sinai: “Ricordati di santificare le feste” (Es 20,8 e Dt 5,16).
Il conoscere e l’analizzare questo comandamento ci serve sia per comprenderne il suo significato originario, così come risuonava presso il popolo d’Israele, sia per la sua attuazione per noi cristiani oggi.
Il comandamento di santificare “il sabato” per il popolo ebreo era collegato al racconto della creazione:
“Ricordati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio. Non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha consacrato”(Es 20, 8-11).
Proviamo a cogliere alcuni significati profondi che scaturiscono da questo terzo comandamento.
Non solo gli uomini, ma anche gli animali devono terminare la settimana di lavoro con un giorno di riposo. Questo comandamento impone di fatto un doppio obbligo: quello di lavorare durante i giorni di lavoro e quello di riposare il giorno di sabato. Si impone un’alternanza di lavoro e riposo. Il settimo giorno è il sabato in onore del Signore.
Questa richiesta del riposo del sabato va collegata con il riposo di Dio. Anche l’uomo nel settimo giorno deve cessare dal suo lavoro, così da prendere parte al riposo di Dio. Il comandamento vuole farci prendere coscienza di questo.
Prima ancora di accennare al culto che si deve rendere a Dio, c’è l’idea fondamentale che il settimo giorno Dio ce lo dà per offrirci un regolare tempo di riposo. Si tratta di un giorno messo a nostra disposizione, un tempo di libertà, perché potessimo respirare.
Israele deve prendere coscienza di essere stato schiavo in Egitto ed è stato liberato dalla mano potente di Dio. In Egitto non poteva riposare a causa della schiavitù in cui si trovava. Ora, liberato da Dio, deve far partecipe gli altri della liberazione che gli ha regalato Dio. Ma c’è anche qualcosa di più. Fino a che viveva in terra straniera Israele non poteva confessare più la sua fede dirigendosi al tempio e offrirvi i sacrifici. Adesso osservando il sabato, non passa settimana senza ricordarsi di Dio.
Ma leggiamo questo comandamento nell’ottica cristiana. È un invito a fare un raffronto su come viviamo la domenica, il giorno del Signore.
Sappiamo come i primi cristiani cominciarono a prolungare il culto del sabato alle prime ore del mattino successivo, per commemorare la resurrezione di Gesù e la riunione degli apostoli dove egli gli apparve per la prima volta.
Alla fine del 1° sec., i cristiani consacrarono alle cerimonie e al riposo l’intero primo giorno della settimana, mantenendo il rito del sabato, “l’ottavo giorno”. Con la diffusione del cristianesimo si limitò alla sola domenica il giorno di festa. La verità spirituale del sabato biblico si compie così nella domenica cristiana, giorno della resurrezione di Cristo, “giorno del Signore” per eccellenza.
In questo comandamento chiediamoci quale significato assume la domenica cristiana; cosa ci richiama questo terzo comandamento, soprattutto oggi?
È bene ricordare cosa ci dice San Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica Dies Domini del 1998. La festa dev’essere per il cristiano “giorno del Signore, di Cristo, della Chiesa, dell’uomo e giorno dei giorni”. Questa è la domenica.
L’uomo rischia di lasciarsi travolgere dagli impegni e di consumare tutto il proprio tempo, cioè tutta la vita, nelle diverse attività, dimenticandosi di Dio.
Con questo comandamento Dio domanda all’uomo di lasciargli spazio nel proprio tempo, cioè nella propria vita, e invita a rendere sacro il tempo, riconoscendo Dio come centro dell’esistenza.
Ecco perché dobbiamo richiamare il valore della domenica. E continuiamo a chiamarla con il suo giusto nome, anziché week-end (“fine settimane”), cioè porzione di giorni monotoni e identici.
Pensiamo alle tante domeniche a cui i cristiani non danno più il loro giusto significato. Ci si dedica o all’eccessivo continuo lavoro o alla semplice astensione dalle occupazioni ordinarie, alla pratica degli hobby o giornate da trascorrere ai grandi centri commerciali.
Come deve essere invece vissuta la domenica? È il giorno in cui Dio ci chiede di prendere parte al suo riposo, ma è anche il tempo santo che appartiene a noi e a Dio. Ciò che è santo è anche salutare. Diventa, quindi, rimedio contro la frenesia del vivere moderno, riacquistiamo la calma. È il giorno santo perché dinanzi alle deformazioni prodotte in noi dalle ferite di ogni giorno, veniamo riportati nella condizione a cui Dio ci ha destinati. È anche il “giorno sacro”, il giorno cioè in cui partecipiamo alla santa Eucarestia domenicale; è il giorno riservato all’incontro speciale con il Signore morto e risorto, momento di forte intimità con Cristo e la sua Chiesa, sua sposa che siamo noi.
L’obbligo di partecipare alla Messa domenicale si comprende alla luce di quella profonda esperienza spirituale e religiosa. È tempo per Dio, per coglierne la presenza e mettersi in ascolto. Ma la domenica è anche il tempo da dedicare di più alla famiglia, per tornare a gustare la bellezza dello stare insieme e l’intimità degli affetti; è il tempo per la comunità, per riscoprire la solidarietà, occasione e stimolo per approfondire rapporti fraterni e sociali all’insegna della gratuità, dell’amicizia e dell’attenzione soprattutto per chi è solo, ammalato o anziano.
Santificare la festa è quindi santificare sè stessi, sostare per contemplare Dio, giorno del Signore per celebrare la pasqua della settimana, occasione privilegiata per stare in famiglia, tempo prezioso per vivere l’impegno della carità. Un tempo privilegiato per un assaggio di eternità
Papa Francesco ai Movimenti e alle Aggregazioni laicali in Piazza San Pietro
Dell’impegno a vivere coerentemente il Vangelo avevano dato testimonianza poco prima aderenti a Rinnovamento nello Spirito, Mov. dei Focolari, Cellule parrocchiali di animazione, Nuovi orizzonti, Comunione e Liberazione, Neocatecumenali, e Sant’Egidio. Parlando del superamento delle difficoltà all’interno della vita di coppia e di famiglia, del passaggio da una vita lontana dalla fede all’incontro con Cristo, dell’annuncio del Vangelo nel proprio ambiente di studio e di lavoro, dell’incontro con Gesù nei poveri. Saranno poi Paul Bhatti, fratello di Shahbaz Bhatti, ministro delle minoranze del governo pakistano, ucciso da estremisti islamici a 43 anni e Johm Waters scrittore e giornalista irlandese passato da anni di lontananza alla fede, a raccontare di sé di fronte al Papa: “Sono molto grato a papa Francesco per avermi dato l’opportunità di condividere, con tutti voi, i dolori e le speranze dei cristiani del Pakistan “ esordisce Paul Bhatti:
“Nel mio Paese, i cristiani sono una piccola minoranza, molto povera. .. Molte volte subiamo discriminazioni, e anche violenze. … Ma, come discepoli di Gesù, vogliamo essere uomini di pace, in dialogo con i nostri fratelli musulmani e delle altre religioni. Vogliamo testimoniare con l’amore e la misericordia la nostra fede in Gesù. E’ stata questa la testimonianza del mio fratello più giovane, Shahbaz Bhatti, che ha dato tutta la sua vita per il Vangelo”.
Per tutta la sua vita, racconta Paul Bhatti, nonostante le minacce, è stato fedele alla sua missione di essere vicino ai poveri, di testimoniare l’amore di Gesù nella società violenta del Pakistan, e le sue parole e i suoi gesti hanno dato coraggio ai cristiani pakistani. Ora tanti hanno raccolto la sua testimonianza e “vogliono continuare a testimoniare il Vangelo della mitezza, del dialogo, dell’amore per i nemici”“Questa è la storia della mia vita, una vita vissuta dentro la falsa realtà che l’uomo ha costruito per sentirsi sicuro”, dichiara John Waters raccontando come a lungo avesse creduto che Dio fosse incompatibile con la sua ricerca della libertà. Poi la scoperta di quanto una vita senza di Lui fosse insoddisfacente:
“La natura dell’uomo è una continua domanda. Tu e io siamo fatti di desiderio. Non siamo fatti per accontentarci di una soddisfazione timida e fiacca…Questo è il motivo per cui Gesù è venuto fra noi: per mostrarci tutto quello che la vita umana può essere”.
Aiutato da alcuni amici, conclude, Waters: “ho imparato che il desiderio della Grandezza di Dio non era un bel concetto astratto, ma un fatto al centro della mia struttura e della mia natura…conoscere Cristo è conoscere me stesso, capire come sono fatto e diventare libero”.
Alle 17 e 30 l’arrivo di Papa Francesco nella piazza. Per mezz’ora percorre con la jeep bianca scoperta tutti i settori stracolmi e parte di via della Conciliazione. Poi salito sul sagrato, il momento tanto atteso del dialogo tra lui e le migliaia di persone presenti. Non un intervento scritto, ma la risposta a braccio a quattro domande.
Alla prima: “Come ha potuto raggiungere Lei nella Sua vita la certezza sulla fede?” Il Papa risponde:
“Ho ricevuto il primo annuncio cristiano proprio dalla mia nonna, no?, è bellissimo, quello! Il primo annuncio in casa, con la famiglia, no? E questo mi fa pensare all’amore di tante mamme e tante nonne, nella trasmissione della fede. Noi non troviamo la fede un po’ nell’astratto, no: sempre è una persona che predica, che ci dice chi è Gesù, ti da la fede, ti da il primo annuncio… E questa esperienza della fede è importante. Noi diciamo che dobbiamo cercare Dio, andare da Lui a chiedere perdono … ma quando noi andiamo, Lui ci aspetta, Lui è prima! …. Voi parlavate della fragilità della fede: come si fa per vincerla. Il nemico più grande che ha la fragilità, è curioso, eh?, è la paura. Ma non abbiate paura! Siamo fragili, ma lo sappiamo. Ma Lui è più forte!Come possiamo comunicare in modo efficace la fede oggi? E’ la seconda domanda:”Dirò tre parole soltanto. Primo: Gesù. Chi è la cosa più importante? Gesù. Se noi andiamo avanti con l’organizzazione, con altre cose, con belle cose pure, ma senza Gesù, non andiamo, la cosa non va. La seconda parola è la preghiera. Guardare il volto di Dio, ma soprattutto, e questo è collegato con quello che ho detto prima, sentirsi guardati. La terza è la testimonianza”.
Alla domanda: “Come possiamo vivere una Chiesa povera e per i poveri? Quale contributo possiamo dare per affrontare la grave crisi di oggi? Papa Francesco risponde che vivere il Vangelo è il primo contributo che possiamo dare:
“La Chiesa non è un movimento politico, né una struttura ben organizzata, ma, come dice Gesù, è sale della terra e luce del mondo, è chiamata a rendere presente nella società il lievito del Regno di Dio; e lo fa prima di tutto con la testimonianza dell’amore fraterno, della solidarietà, della condivisione”.
di Giacomo Campanile redazione@vivereroma.org |
16 Maggio 2013
Papa Francesco. No a carrierismo nella Chiesa. I pastori siano al servizio del popolo di Dio
Nella messa a Santa Marta prima dell’udienza generale il Papa spiega che San Paolo ricorda di aver lavorato con le sue mani: «Non aveva un conto in banca, lavorava!». Poi scandisce: «E quando un vescovo, un prete va sulla strada della vanità, entra nello spirito del carrierismo e fa tanto male alla Chiesa, fa il ridicolo alla fine, si vanta, gli piace farsi vedere, tutto potente… E il popolo non ama quello!». Sono la «ricchezza» e la «vanità» le due tentazioni dalle quali devono guardarsi vescovi e preti, dice. E chiede di pregare perché siano «pastori» e non «lupi».
Il Papa denuncia il carrierismo, la «mondanità spirituale», come il pericolo più grande della Chiesa. La sua riforma si fonda su un richiamo continuo allo spirito evangelico. «Alla fine un vescovo non è vescovo per se stesso, è per il popolo; e un prete non è prete per se stesso, è per il popolo». Il servizio proprio del pastore è «proteggere il suo gregge dai lupi», spiega nell’omelia a Santa Marta. «Quando il vescovo fa così crea un bel rapporto col popolo, come il vescovo Paolo lo ha fatto col suo popolo: c’è un amore fra di loro, un vero amore, e la Chiesa diventa unita». Per questo «noi abbiamo bisogno delle vostre preghiere», aggiunge, «perché anche il vescovo e il prete possono essere tentati». Le tentazioni sono quelle di cui scriveva Sant’Agostino, cita Papa Bergoglio: «La ricchezza, che può diventare avarizia, e la vanità». Quando un vescovo o un prete «si approfitta delle pecore per se stesso, il movimento cambia: non è il prete, il vescovo per il popolo, ma il prete e il vescovo che prende dal popolo». L’autore delle «Confessioni», ricorda il Papa, dice che costui «prende la carne per mangiarla alla pecorella, si approfitta; fa negozi ed è attaccato ai soldi; diventa avaro e anche tante volte simoniaco. O se ne approfitta della lana per la vanità, per vantarsi» Papa Francesco invita a pregare per i proprio pastori «perché siamo poveri, perché siamo umili, miti, al servizio del popolo». Il Papa rimanda al capitolo 20 degli Atti degli Apostoli «dove Paolo dice: vegliate su voi stessi e su tutto il gregge. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé». Ed esclama ai fedeli: «Leggete questa bella pagina e leggendola pregate, pregate per noi vescovi e per i preti. Ne abbiamo tanto bisogno per rimanere fedeli, per essere uomini che vegliano sul gregge e anche su noi stessi, che fanno la veglia proprio, che il loro cuore sia sempre rivolto al suo gregge. Che il Signore ci difenda dalle tentazioni, perché se noi andiamo sulla strada delle ricchezze, se andiamo sulla strada della vanità, diventiamo lupi e non pastori. Pregate per questo, leggete questo e pregate».
di Giacomo Campanile redazione@vivereroma.org |
14 Maggio 2013
Peste e pandemia in San Cipriano. Lezione novembre 2020
Storia e ambiente – Malattie ed epidemie
La peste di Cipriano fu una pandemia che colpì l’impero romano dal 249 al 262 d.C.. Si pensa che l’epidemia abbia causato diffuse carenze di manodopera per l’agricoltura e per l’esercito romano, e indebolito gravemente l’impero durante la crisi del terzo secolo.
Cipriano e Camus, la fede e l’ateismo di fronte alla peste
Quella fede che vince il «male micidiale»
Anche nel tunnel dell’epidemia si continua a leggere (di più in quarantena? Lo speriamo). Ma quali libri? La risposta lega il discorso sull’emergenza socio-sanitaria che ci attanaglia a quello sulle letture che al momento ci intrigano. Fra i titoli più gettonati da febbraio in qua — ce lo dicono i librai, e i bibliotecari confermano — c’è La peste di Albert Camus, il romanzo più noto dell’autore franco-algerino, pubblicato nel 1947 e divenuto un classico del Novecento. Il libro parla di una grave epidemia che scoppia in una città della costa algerina, Orano, e imperversa per mesi causando grandi sofferenze fisiche e morali alla gente e facendo migliaia di morti.
I critici interpreteranno variamente il morbo descritto da Camus, ora come allegoria del nazismo, ora come espressione narrativa della sua visione filosofica, improntata alla lettura della vita-storia umana come un assurdo doloroso. In ogni caso i lettori italiani, travolti dal coronavirus, più che in una filosofia o una poetica hanno voluto come rispecchiarsi nella trama di un grande libro contemporaneo che ricalca il nostro dramma collettivo. E si sono identificati nel protagonista, Bernard, vittima dell’angoscia, tentato dalla disperazione, in cerca degli amici e, lui medico, curvo sui malati a salvare vite umane.
I media non potevano fare a meno di registrare questo risveglio dal coma dell’oblio di un capolavoro letterario, sull’onda di un’attualità a cui avremmo rinunciato con piacere. E qualcuno ne ha colto il destro per ricordare gli autori e le opere più note sul tema della peste, della morìa, del disastro corale (lo sta facendo, tra gli altri, anche l’Osservatore Romano da settimane con la serie dedicata a Il racconto dell’epidemia nei secoli). Da Tucidide a Lucrezio, la voce più originale della poesia latina, ammiratore di Tucidide e autore a sua volta, nel finale del De rerum natura, di una descrizione della peste ateniese più scioccante delle pagine tucididee. Da Daniel Defoe, autore nel 1722 del Journal of the Plague Year (il “Diario dell’anno della peste”) a Boccaccio, testimone oculare della «mortifera pestilenza» del 1348 (come la chiama, vi perse familiari e amici) e genio letterario nell’elezione del tragico sfondo a cornice narrativa del Decameron. Quanto all’arcinota peste di Manzoni, i lettori e soprattutto i nostri studenti, per i quali a volte I promessi sposi è un po’ datato, complice il buio presente potranno ahimé sentirsi più in sintonia con l’autore e scoprirne la drammatica attualità.
Ma fra questi classici, riletti al tempo del covid-19, ne manca uno non meno grande, il De mortalitate di san Cipriano, il più insigne dei Padri preniceni. Cipriano era un retore di Cartagine, metropoli romana e cuore della Chiesa africana.
A 40 anni, verso il 246, si converte al cristianesimo e, colto e retto com’è, il popolo gli “impone” il presbiterato e nel 249 lo vuole vescovo. Diverrà una personalità dominante della Chiesa latina, alla guida di una città e cristianità al centro delle grandi questioni ecclesiali: i lapsi, il battesimo degli eretici, il primato romano, l’unità della Chiesa. Si distinse per la sua coerenza dottrinale, l’accoglienza dei decreti pontifici (ma nella disciplina era più rigorista di Roma) e un grande zelo pastorale, da padre pur nel rigore. Finito nel mirino dei persecutori Decio e Valeriano, morì martire a Cartagine nel 258, decapitato sul prato di un’altura a picco sul mare.
Il De mortalitate, titolo tradotto in genere come “La pestilenza”, ma mortalitas significa pure “mortalità”, “fragilità” e anche “morte”, così come lo abbiamo è un messaggio pastorale (forse elaborato da un’omelia) scritto da Cipriano nel 252 per i fedeli, colpiti da una tremenda pestilenza, forse era vaiolo o virus ebola. La pandemia era esplosa in Egitto e si era sparsa nei territori rivieraschi del Nordafrica, causando migliaia di morti e invadendo la popolosa Cartagine. Il morbo arriverà a Roma, dove farà cinquemila morti al giorno e ricorderà a tutti la peste Antonina del secolo prima, sotto Marco Aurelio. Allora come nel III secolo l’emergenza sanitaria si era accompagnata ad altre sciagure (guerre, invasioni, carestie, fame…) che per i pagani erano castighi degli dèi indignati per la libertà data ai cristiani, mentre per questi preannunciavano la fine del mondo.
Il De mortalitate attesta l’estrema premura pastorale di Cipriano, impegnato sia sul piano socio-sanitario sia dal lato spirituale. Il male colpiva duro, l’autore ci parla dei sintomi: bruciore agli occhi, febbre, coliche devastanti, a tanti si amputavano gli arti. È un “male micidiale”, dice, che strappa i figli ai genitori, i mariti alle mogli, gli amici agli amici.
Ma oltre il realismo c’è la visione cristiana della morte e del dolore, un respiro soprannaturale, l’invito alla speranza e alla meditazione dei valori morali e spirituali eterni. È una consolatio cristiana, dove sfocia una tradizione che viene da Cicerone e Seneca. Ma a volte è severo il vescovo di Cartagine, deciso nello scuotere l’amato e afflitto gregge: «Che motivo c’è di stare in ansia e di essere preoccupati? Chi resta trepidante e mesto tra questi avvenimenti se non chi non ha né speranza né fede?». Niente sconti, in Cipriano c’è l’austerità dell’uomo antico, del romano che è sempre rimasto. Ma egli ridesta la fede e la speranza con una forza e una passione uniche. I pastori oggi hanno più comprensione e delicatezza, per loro è giusto l’attaccamento delle persone e anche dei cristiani alla vita; Cipriano lo critica, lo flagella. Però non arriva a vedere nel contagio il castigo divino dei nostri peccati, come fa padre Parroux, il religioso che è fra i personaggi principali della Peste di Camus.
UN FANTASTICO DISCORSO ALLA NAZIONE DA PARTE DEL MINISTRO AUSTRALIANO PETER COSTELLO !
Non sono contrario all’immigrazione e non ho niente contro coloro che cercano una vita migliore venendo in Australia.
Tuttavia ci sono questioni che coloro che recentemente sono arrivati nel nostro Paese e, a quanto sembra, anche qualcuno dei nostri concittadini nati qui, devono capire.
L’idea che l’Australia deve essere una comunità multiculturale è servita soltanto a dissolvere la nostra sovranità ed il sentimento di identità nazionale.
Come australiani, abbiamo la nostra cultura, la nostra società, la nostra lingua ed il nostro modo di vivere. Questa cultura è nata e cresciuta durante più di due secoli di lotte, processi e vittorie da parte dei milioni di uomini e donne che hanno cercato la libertà di questo Paese.
Noi parliamo l’inglese, non il libanese, l’arabo, il cinese, il giapponese, il russo o qualsiasi altra lingua. Perciò, se desiderate far parte della nostra società, imparate la lingua! La maggioranza degli australiani crede in Dio. Non si tratta soltanto di un affare privato di qualche cristiano fondamentalista di destra, ma vi è un dato di fatto certo ed incontrovertibile: uomini e donne cristiani hanno fondato questa nazione su principi cristiani, ed è chiaramente documentato nella nostra storia e dovrebbe essere scritto sui muri delle nostre scuole.
Se il nostro Dio vi offende, allora vi consiglio di prendere in considerazione la decisione di scegliere un’altra parte del mondo per mettere su casa, perché Dio è parte della nostra cultura. Accetteremo le vostre opinioni religiose, e non vi faremo domande, però daremo per scontato che anche voi accettiate le nostre e cercherete di vivere in pace ed armonia con noi. Se la Croce vi offende, o vi molesta, o non vi piace, allora dovrete pensare seriamente di andarvene da qualche altra parte. Siamo orgogliosi della nostra cultura e non pensiamo minimamente di cambiarla, ed i problemi del vostro paese di origine non devono essere trasferiti sul nostro.
Cercate di capire che potete praticare la vostra cultura, ma non dovete assolutamente obbligare gli altri a farlo.
Questo è il nostro Paese, la nostra terra, il nostro modo di vivere vi offriamo la possibilità di viverci al meglio. Ma se voi cominciate a lamentarvi, a piagnucolare, e non accettate la nostra bandiera, il nostro giuramento, i nostri impegni, le nostre credenze cristiane, o il nostro modo di vivere, vi dico con la massima franchezza che potete far uso di questa nostra grande libertà di cui godiamo in Australia: il diritto di andarvene.
Se non siete felici qui, allora andatevene.
Nessuno vi ha obbligato a venire nel nostro Paese. Voi avete chiesto di vivere qui: ed allora accettate il Paese che avete scelto. Se non lo fate, andatevene!
Vi abbiamo accolto aprendo le porte del nostro paese; se non volete essere cittadini come tutti in questo paese, allora tornate al Paese da cui siete partiti!
Questo è il dovere di ogni nazione.
Questo è il dovere di ogni immigrato.
9 Maggio 2013
MASSIME MAGGIO 2013
L’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro. Gv 17,26
Gv 16,29-33. Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!
Gv 16,16-20. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia.
L’uomo è “un viandante”, e il suo motore è lo Spirito Santo, che c’insegna ad essere “figli” e a vivere la vita con lo “sguardo” di Dio.
LO SPIRITO DI VERITA’ VI GUIDERA’ ALLA VERITA’ TUTTA INTERA