Sinfonia vuol dire accordo. Un suono. Diversi strumenti suonano. Diversi strumenti suonano insieme. Una tromba basso non è un violoncello; un violoncello non è un fagotto. Il contrasto fra gli strumenti deve essere il più netto possibile, in modo che ciascuno mantenga il suo timbro inconfondibile. Il compositore deve scrivere la parte in modo tale che il timbro di ogni strumento raggiunga il suo massimo effetto. In questo campo Bach, quando trascrive i concerti di violino per il clavicembalo, apportando solo leggere modifiche, forse non è il miglior rappresentante. Maestro consumato invece è Mozart: i suoi concerti per violino, per corno o per clarinetto, mettono sempre in risalto la peculiarità specifica dello strumento. Nella vera sinfonia, però, tutti gli strumenti si fondono nell’accordo generale. Mozart possedeva a tal punto questa visione d’insieme che, talvolta, era in grado di annotare la parte di un singolo strumento per lo spazio di un intero tempo musicale, perché egli la sentiva in armonia con tutte le altre parti. Per poter esprimere tutta la ricchezza dei suoni che il compositore sente dentro di sé, l’orchestra deve essere pluralistica. Il mondo è simile a una grande orchestra che sta accordando i suoi strumenti; ognuno suona sul suo strumento una nenia monotona, mentre il pubblico affluisce e il direttore d’orchestra non è ancora arrivato. Ad un certo punto però il pianoforte suona un la, perché tutt’intorno si stabilisca una certa uniformità di suono: si accorda su qualche cosa di comune. Anche la scelta degli strumenti presenti non è casuale. Essi costituiscono già, con la diversità delle loro caratteristiche, qualche cosa come un sistema di coordinate. L’oboe, aiutato forse dal fagotto, farà da contrappunto alla parte degli archi; tuttavia non sarebbe sufficientemente efficace, se i corni non svolgessero il compito di sottofondo unitario per il dialogo dei diversi strumenti. La scelta è determinata dal disegno che provvisoriamente giace, muto, nella partitura aperta; non appena però la bacchetta del direttore d’orchestra si alzerà, richiamerà su di sé l’attenzione di tutti gli strumenti, trascinerà tutta l’orchestra con sé e allora si vedrà qual è il compito di ognuno. Con la sua rivelazione Dio sta seguendo una sinfonia, della quale non è possibile dire cosa sia più maestoso, se l’ispirazione unitaria della composizione, oppure l’orchestra polifonica della creazione, che egli si è preparato a questo scopo. Prima che la Parola di Dio si facesse uomo, l’orchestra andava invece strimpellando senza un disegno preciso: concezioni del mondo, religioni, progetti di vita politica in grande quantità; ognuno suona qualche cosa per sé. In qualche modo si ha il presentimento che questo suono cacofonico era soltanto una “accordatura”: al di sopra di tutto risuona il la, simile a una promessa. “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti…” (Eb 1, 1). Infine giunse il Figlio, l’“erede di tutto” per il quale era stata voluta anche tutta l’orchestra. Mentre sotto la sua direzione viene eseguita la sinfonia di Dio, si svela anche il significato della sua pluralità. L’unità organica della composizione è opera di Dio. Per questo motivo il mondo era, è e sarà sempre (e, perché no, in una maniera sempre più accentuata) pluralistico. Ovviamente il mondo non riesce ad abbracciare completamente la sua pluralità, perché l’unità non è mai albergata in esso, ieri non meno di oggi. Ma il significato del suo pluralismo non è quello di rifiutare l’unità di Dio, unità che Dio stesso gli ha rivelato, ma quello di aderire sinfonicamente a questa unità divina e di dare il suo assenso a tale crescente unità. Non sono peraltro previsti altri spettatori all’infuori di coloro che suonano: eseguendo la sinfonia divina – la cui composizione non può essere in alcun modo ricavata dagli strumenti e neppure dal loro insieme –, tutti conoscono per quale scopo sono radunati. All’inizio siedono, estranei e nemici, l’uno accanto all’altro. Improvvisamente, quando l’opera comincia, comprendono perfettamente come tutti si integrano a vicenda. Non all’unisono, ma – cosa molto più bella – in una sinfonia. La situazione odierna da cui noi dobbiamo prendere le mosse è caratterizzata da un atteggiamento di impazienti strappi e scossoni, dati alla struttura di una unità che è sperimentata come un carcere. Non è forse un controsenso quando una melodia è costretta dentro gli schemi di una fuga; quando la legge della fuga ne determina lo sviluppo e perfino la forma originaria? Essa vorrebbe uscire da questo condizionamento per potersi presentare e manifestare allo “stato puro”. Oggi assistiamo a un potente desiderio di pervenire alla figura affascinante di Gesù Cristo, di comprendere il Cristo come egli era in sé, allo stato genuino, liberato dai funesti legami con una Chiesa istituzionale, con un mucchio di dogmi incomprensibili, di usanze sorpassate e di tradizioni sclerotizzate. Dopo le incrostazioni di duemila anni di storia, egli deve risorgere per noi nel suo primitivo, semplice e nuovo splendore. E proprio oggi l’esegesi ci dice, in modo perentorio, che noi conosciamo Gesù Cristo solo attraverso la testimonianza di fede della Chiesa primitiva; che questa fede ha contribuito alla redazione dei racconti della sua vita. Quindi noi non potremo mai strappare dal Cristo gli abiti della Chiesa. Siccome questi non si possono rifiutare, ecco che incomincia una seconda battaglia che consiste nello spogliare, nel ripulire, nel semplificare a tal punto la Chiesa attuale, ricca di tradizioni, fino a che non cominci a trasparire in essa la supposta signoria di Gesù Cristo. Inoltre bisogna mettere in discussione anche le più originarie formule di fede della Chiesa primitiva: non sono forse già anch’esse un velame, un soffocamento? Se al cavolo togliamo, una dopo l’altra, tutte le foglie, alla fin fine non ci resterà più nulla! In qualche modo non hanno forse ragione ambedue questi movimenti? La Chiesa come totalità dovrebbe certamente rispecchiare la figura del Cristo; essa non dovrebbe essere assolutamente nient’altro che questo. Se non lo è, perché meravigliarsi se dopo di essa viene attaccato anche il nucleo fondamentale? D’altro canto: se Gesù si è dato spontaneamente alla morte, per rendersi comprensibile ai suoi discepoli come Christus totus solo al di là della morte nella sua risurrezione, apparizione e autocomprensione, allora la Chiesa non è forse il luogo, che egli stesso si è scelto, nel quale egli vuole essere presente e nel quale vuole essere incontrato? Ciò che noi chiamiamo “incarnazione di Dio” in Gesù di Nazareth si completa soltanto nella comunità dei credenti, che hanno e avvertono la missione di annunciare al mondo il suo evento e di riproporlo al mondo con la loro testimonianza. Nessuno è in grado di dire con esattezza quando la prima comunità comincia a diventare la “prima comunità cattolica”. Fin dall’inizio è presente la struttura ministeriale in Pietro ed estremamente accentuata in Paolo; fin dall’inizio è presente Maria, la Madre, che con Giovanni stava ai piedi della croce, pregando in mezzo alla comunità. Fin dall’inizio si battezza, si spezza il pane, si rimettono i peccati, si ungono gli ammalati, si impongono le mani, si impartiscono precise istruzioni, vengono eletti i presbiteri, viene sancito il diritto sacro, ci si appella alla tradizione. I motivi sono già intrecciati, sono già armonizzati fra loro; la fuga prende inizio. Non possiamo strappare con violenza il Cristo dalla Chiesa, ma non possiamo neppure ridurre semplicemente la Chiesa al Cristo. Se vogliamo soprattutto sentire qualche cosa di comprensibile siamo costretti ad ascoltare tutta la polifonia della rivelazione. La trasparenza in ordine al Cristo non si raggiunge distruggendo la Chiesa o sostituendola con formule comunitarie inventate da noi, ma operando in modo tale che i credenti si rendano il più possibile conformi alla realtà ecclesiale: la Chiesa infatti è corpo di Cristo e perciò la sua presenza fisica. D’altro canto anche il tentativo di voler «afferrare» Cristo è una stoltezza: egli è sempre nuovamente sfuggito di mano a coloro che volevano catturarlo; egli stesso, in tutta la sua realtà, è soltanto uno specchio: «Chi vede me, vede il Padre», «Chi conosce il Figlio, ha conosciuto anche il Padre», «La mia dottrina non è mia, ma di chi mi ha mandato», «Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre». Lasciandoci condurre alle sorgenti scopriremo il suo mistero. E lo Spirito, che procede dal Padre e dal Figlio, poiché non è né il Padre né il Figlio, ma il loro reciproco amore, ci introdurrà in questo mistero. Anche la verità eterna è sinfonica.
19 Aprile 2013
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