la vita. studia all’università di Oxford, appartiene all’ordine francescano. deve difendersi, ad Avignone, dall’accusa di eresia; critica la politica ecclesiastica di Giovanni XXII. fugge da Avignone con altri francescani, si rifugia prima in Italia e poi a Monaco presso Lodovico il Bavaro.
GUGLIELMO DI OCCAM
(o Ockham) Filosofo e politico (n. Occam, Surrey, fine sec. 13° – m. 1349 o 1350).
LA VITA E LE OPERE
Entrato nell’ordine francescano, studiò a Oxford, dove nel 1319 era professore. In questo periodo si occupò particolarmente di problemi filosofici; accusato di eresia, dovette (1324) presentarsi alla curia papale, in Avignone, dove fu trattenuto per quattro anni; riuscito finalmente a fuggire, andò a Pisa con il generale dell’ordine, Michele da Cesena, in contrasto con il papa Giovanni XXII per la questione della povertà dell’ordine, e con il confratello Bonagrazia da Bergamo, presso Lodovico il Bavaro in lotta anch’egli con il pontefice. I tre frati, scomunicati, ebbero piena protezione dall’imperatore e si ritirarono a Monaco di Baviera, dove, in convento, G. scrisse i suoi trattati politici, a sostegno della politica dell’imperatore volta a svincolare l’autorità imperiale da quella del papato instaurandola sul consenso popolare. Al periodo di Oxford appartengono opere di argomento filosofico: Super quatuor libros Sententiarum; o teologico: Quodlibeta septem; Centiloquium theologicum; De sacramento altaris; Tractatus de praedestinatione et praescientia Dei; di argomento logico: Expositio aurea super artem veterem; Summa totius logicae; di filosofia della natura: Quaestiones in octo libros Physicorum; Summulae in libros Physicorum o Philosophia naturalis; Expositio super physicam Aristotelis. Al periodo di Monaco appartengono opere di argomento politico: Opus nonaginta dierum; Breviloquium de principatu tyrannico; Tractatus de dogmatibus Iohannis XXII papae; Compendium errorum papae Iohannis XXII; Tractatus contra Benedictum XII; Octo quaestiones de potestate papae; Defensorium contra Iohannem XXII; An princeps pro suo succursu, scilicet guerrae, possit recipere bona ecclesiarum, etiam invito papa; Epistola ad fratres minores in capitulo apud Assisium congregatos; De imperatoris et pontificum potestate. Il più importante dei suoi trattati politici è il Dialogus inter magistrum et discipulum de potestate papae et imperatoris.
IL CARATTERE NOMINALE E FITTIZIO DELL’UNIVERSALE
G. pone al centro del suo pensiero la tesi dell’irripetibile individualità di ciascun essere, legata a una visione contingentistica che ha il suo ultimo fondamento nell’idea dell’infinita potenza di Dio. La realtà è tutta individuale e nessun universale esiste fuori dell’anima; né le idee platoniche, né l’aristotelico e tomistico quod quid est (essenza individuata fondamento oggettivo dei processi astrattivi), né le scotistiche formalitates; l’universale è quindi solo nel soggetto conoscente, operazione di classificazione degli individuali. Nella realtà individuale non v’è distinzione di essenza ed esistenza (sono soltanto due modi diversi di considerare lo stesso oggetto), né distinzione reale tra gli accidenti e la sostanza, essendo i primi modi di concepire la sostanza, e così per le relazioni che sono quindi oggetto della logica, non della metafisica. A questa concezione della realtà corrisponde una psicologia che riconosce il primato alla conoscenza intuitiva che ha per oggetto le cose stesse nella loro esistenza puntuale, e poiché le cose sono contingenti, anche l’ordine di verità cui appartengono le corrispondenti intuizioni è contingente; la conoscenza astrattiva è invece quella che prescinde dall’esistenza, o quella che raccoglie caratteri che paiono comuni a più individui (carattere quindi nominale e fittizio dell’universale, che non ha con gli oggetti né rapporti univoci né analogici). L’universale prodotto dal procedimento astrattivo è una suppositio simplex legata all’oggetto pensato; il termine invece che designa l’individuo una suppositio personalis; dottrina che va collegata con il valore meramente convenzionale del rapporto tra il termine del linguaggio e l’oggetto significato (suppositio materialis): questa complessa dottrina della suppositio e del signum avrà notevoli sviluppi nella logica della scuola occamista.
LA TEOLOGIA
Questa concezione della realtà e questo modo d’intendere il processo conoscitivo hanno le loro corrispondenze nella teologia: cade il valore delle tradizionali prove dell’esistenza di Dio fondate tutte su un tessuto ontologico, che G. ritiene non valide o non conoscibili; neppure il principio di causalità può essere utilizzato nella prova dell’esistenza di Dio, non essendo possibile escludere un regresso all’infinito. Dio è solo oggetto di fede, e gli attributi divini sono nomi che attribuiamo allo stesso essere. Tra questi attributi G. sottolinea l’onnipotenza, che sta a fondamento di una concezione contingentistica in cui tutti gli esseri, le loro relazioni e gli stessi fondamentali principi logici ed etici dipendono dalla volontà di Dio.
LA FISICA
Molte le critiche all’aristotelismo in ambito fisico: non solo viene positivamente valutato il conoscere intuitivo e sperimentale, ma anche a proposito di alcune dottrine fondamentali, è notevole il contributo di G. al superamento della problematica tradizionale. Si ritrovano, per es., nelle sue opere la teoria dell’impetus (che nega la dottrina aristotelica del movimento dei proiettili come mossi dall’aria circostante e ne attribuisce il movimento alla vis a essi impressa nel lancio) e la teoria dell’intensio et remissio formarum ridotta a termini nominalistici e in qualche modo sperimentali. La teoria dello spazio è connessa da G. al modo di rappresentare il corpo: lo spazio non è diverso dal corpo.
L’AUTONOMIA DELLA FILOSOFIA
Questo complesso di dottrine porta a rivedere profondamente i rapporti tra filosofia e teologia: di quest’ultima è negato ogni valore speculativo e ogni possibilità quindi di usare nel suo ambito tecniche filosofiche: nella teologia è la fede il fondamento e la guida. Per converso, la filosofia, nel suo ambito, è autonoma. Tale autonomia di sfere si riflette anche nell’ambito politico come distinzione e autonomia di Chiesa e Stato, essendo la prima concepita da G. come società spirituale, sicché è negato al papa ogni intervento nel dominio politico. Grande figura di pensatore, G. segna uno dei momenti culminanti della crisi della cultura e della società scolastica quale si era affermata nel corso del 13° sec.: per molti aspetti egli avvia un orientamento di pensiero che avrà larga influenza nei secoli seguenti.
RASOIO DI OCCAM
È così chiamato il principio di cui G. fa grande uso, e cioè pluralitas non est ponenda sine necessitate ponendi, o anche entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem; tale principio indica un canone metodico di semplificazione.
Ne abbiamo già parlato in diverse occasioni (cfr. l’articolo Le radici del modernismo in Guglielmo di Ockham, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia l’8/11/17), ma non ci stancheremo di ripeterlo: la deriva della teologia progressista e modernizzante comincia fin dal tardo Medioevo, con la figura del francescano inglese Guglielmo di Ockham (1280-1349), quasi contemporaneo di Dante, il quale per primo si è completamente scordato la semplice evidenza che la teologia è fatta per affiancare, illuminare e sostenere la fede, e non per metterla in crisi e prospettarle difficoltà insormontabili. Qualsiasi filosofo, prima di lui, lo sapeva bene e si sarebbe guardato dal mettersi su una tale strada; qualsiasi filosofo avrebbe considerato un cattivo uso della ragione il fatto di adoperarla non per collaborare con la fede, ma per esserle di scandalo. Lui, invece, no: fermo e sicuro nel suo atteggiamento, nelle sue posizioni, guarda con sovrano disprezzo tutto il tesoro che la teologia ha accumulato prima di lui, lo passa in rassegna e lo dichiara non più utilizzabile, superato, obsoleto, o, quanto meno, bisognoso di radicali riforme. Che cosa ci ricorda, un simile atteggiamento? È esattamente lo stesso di Karl Rahner e degli altri teologi modernisti che sono riusciti ad esercitare un influsso decisivo sul Concilio Vaticano II e, con ciò, sulla vita della Chiesa cattolica, e perfino sulla sua dottrina.
Il “rasoio di Ockham”? la “riduzione” proposta da Ockham è qualcosa di simile a una potatura talmente rozza e selvaggia, da provocare la morte di tutte le piante del giardino!
Per Ockham, noi non possiamo avere alcuna esperienza di Dio, perché noi abbiamo esperienza solo delle cose sensibili, e tutto il nostro sapere è frutto dell’esperienza. Il suo, quindi, è un empirismo radicale, anzi un vero e proprio sensismo; e affermando che di Dio non si può avere esperienza, egli non solo svaluta o ignora la via mistica, ma demolisce anche la via razionale che conduce, se non a Dio, quanto meno alla certezza della sua esistenza. Le cinque prove di san Tommaso d’Aquino? No, per Guglielmo di Ockham nessuna di esse fornisce una dimostrazione convincente della sua esistenza. Egli è veramente l’iniziatore del pensiero moderno, laddove afferma che la ragione e la fede sono due cose del tutto separate e distinte, e che non vi è possibile convergenza fra esse. Tutti gli sviluppi materialisti e irreligiosi del pensiero moderno sono contenuti, in nuce, in questa idea centrale. Un’idea che verrà sviluppata dai vari Cartesio, Locke, Hume, Kant, e che getta nel cestino della carta straccia secoli e secoli di riflessione teologica e metafisica, non solo cristiana, ma anche pagana, basti pensare a Platone e soprattutto a Plotino. Egli è anche il padre dello psicologismo e del soggettivismo, poiché sostiene che la conoscenza umana si basa sull’intuizione immediata e diretta degli enti, sicché non serve provare la loro esistenza, quando se ne ha esperienza diretta. Il conoscere, per lui, si riduce a un prendere atto di quello che c’è; ma quello che c‘è, in sostanza, si riduce a quel che possiamo esperire con i sensi. È evidente che ciò contrasta con le fondamenta stesse del sentimento religioso, oltre che della Rivelazione: forse che noi abbiamo avuto la conoscenza immediata e diretta dell’Incarnazione del Verbo, o della Santissima Trinità? Si direbbe che Ockham non si renda conto sino in fondo della portata devastante del suo modo d’impostare la relazione tra fede e ragione, anzi, che non si accorga neppure di quanto limitante e mortificante sia la sua idea di ragione. La ragione, in ultima analisi, si riduce a psicologia, e più precisamente ad “accettazione” dei dati che i sensi inviano alla mente. Qui non c’è più alcuno spazio né per la metafisica, né, a ben guardare, per la teologia stessa: che ci sta a fare un teologo il quale, come san Tommaso (l’apostolo) crede solo a ciò che vede, e se non mette le dita nelle piaghe di Cristo, non crede alla sua Resurrezione? Evidentemente, in una simile prospettiva la teologia è diventata inutile, e se ne potrebbe fare benissimo a meno. Perché non compiere l’ultimo passo, allora, e non tagliare l’ultimo, esile filo che la tiene ancora in vita? Un residuo di pudore o una mancanza di coerenza, magari dovuta a poco nobili ragioni di ordine pratico?
Le cinque prove di san Tommaso d’Aquino? No, per Guglielmo di Ockham nessuna di esse fornisce una dimostrazione convincente della sua esistenza!
Non vogliamo metterci a fare, a nostra volta, della psicologia: ci limitiamo a constatare il fatto. Un teologo il quale riduce la conoscenza a sensismo non è più un teologo, puramente e semplicemente: se avesse un po’ di coerenza, dovrebbe dichiarare finita le teologia e cambiare mestiere. Ma Guglielmo di Ockham non si limita a decostruire tutto l’edificio del soprasensibile, fa anche di più: inventa quel marchingegno infernale che è passata alla storia della filosofia come il “rasoio di Ockham”. La pluralità degli enti metafisici gli dà noia; non arriva a dichiarare la svendita fallimentare di tutta la metafisica, però decide di attuare una ristrutturazione radicale, eliminandone quanti più enti possibili: merce avariata, buona per le teste dure e superstiziose dei monaci medievali. Ma cos’è il rasoio di Ockham, infine? Lo si può riassumere in queste due formule del nostro pensatore: Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora, “si fa inutilmente con molto ciò che si può fare con poco”; e Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, “gli enti non si devono moltiplicare senza necessità.” Siccome noi moderni siamo tutti nipotini di Guglielmo di Ockham e viviamo immersi nel clima antimetafisico e nell’orizzonte immanentistico che sono tipici della modernità, questi concetti ci paiono delle perle di saggezza e siamo portati a vedere nel loro autore, o almeno così ci hanno suggerito i nostri professori di liceo, un simpatico precursore del pensiero moderno (il che rappresenta, di per se stesso, un pregio e una credenziale di nobiltà); tanto che ci sembra quasi impossibile che lui solo vedesse una cosa tanto semplice ed evidente, mentre nessuno prima di lui ne era stato capace. Tuttavia, se si assume il punto di vista della filosofia classica, compresi Platone e Aristotele, ci si accorge che la “riduzione” proposta da Ockham è qualcosa di simile a una potatura talmente rozza e selvaggia, da provocare la morte di tutte le piante del giardino. Il suo difetto fondamentale è di pretendere che la psicologia soggettiva possa riflettere l’ordine dell’universo. Se a me, singolo uomo, può sembrare una cosa utile non moltiplicare gli enti per non rendermi troppo difficile la comprensione del reale, chi mi dà il diritto d’inferire che il mondo segue il medesimo ordine dei miei pensieri, e che non contempla l’esistenza di enti non necessari? Ma chi stabilisce la necessità di un ente: l’uomo o Dio? Qui si va a toccare la radice irreligiosa della speculazione di Ockham, che egli peraltro sa ben dissimulare, forse perfino a se stesso. Infatti, è ben vero che il Nostro si premura di specificare che il suo “rasoio” si applica solo alla ricerca speculativa e non all’universo creato da Dio: misera astuzia, che sa più di scappatoia formale che di coerenza logica. Siamo coerenti: se è inutile alla mente moltiplicare gli enti, è anche inutile a Dio crearli. Dire che non si devono moltiplicare gli enti, ma ciò solo sul piano concettuale e non sul piano ontologico, dopo aver ridotto la conoscenza ad esperienza, è un voler salvare capra e cavoli: una debolezza del pensiero, o un’ipocrisia. Se il reale è, per noi, solo ciò che di esso possiamo conoscere empiricamente e psicologicamente, ammettere che forse Dio ragiona in modo diverso, e consente l’esistenza di enti “necessari” che a noi, però, non sembrano tali, è mettere una foglia di fico sulla propria incredulità. Che cosa sia necessario, lo sa Dio; se pretende di deciderlo l’uomo, allora non solo la metafisica, ma anche la fede in Dio diventano inutili. Per salvare le apparenze, non resta che introdurre la dottrina della doppia verità, come sempre hanno fatto tutti gli eretici, dai seguaci di Averroè fino a Giordano Bruno e oltre: una cosa è quel che appare alla ragione umana, e un’altra cosa è la realtà in sé. Dopo Kant, degno successore di Ockham, non ci sarà più bisogno nemmeno di questa foglia di fico: la metafisica verrà messa fra parentesi e spostata in soffitta, dove non darà più fastidio a nessuno; e la filosofia sarà libera di procedere spedita, senza più anticaglie, remore e scrupoli di sorta nei confronti della Cosa in Sé – che, in ultima analisi, è l’Essere.
Anche oggi domina la dottrina della doppia verità, come sempre hanno fatto tutti gli eretici, dai seguaci di Averroè fino a Giordano Bruno e oltre!
Ma sentiamo quel che dice Guglielmo di Ockham, direttamente dalla sua bocca (da: Quodlibeta, II, q. 1; I,, q. 1; traduzione in: A.A. V.V., Galassia filosofia, Firenze, Casa Editrice Bulgarini, 2015, vol. 1, pp. 653-654):
Affermo in primo luogo che non può essere dimostrato dalla ragione naturale che Dio è causa efficiente immediata di tutte le cose. Sia perché non può essere sufficientemente dimostrato che altre cause, ad esempio i corpi celesti, non siano sufficienti a spiegare i molti effetti, e che, quindi, non si ponga invano una causa efficiente IMMEDIATA di essi. Sia perché, se si potesse dimostrare con la ragione naturale che Dio è causa efficiente di tutte le cose, e non si potesse dimostrare con la ragione naturale che egli è causa efficiente di tutte le cose, e se non si potesse dimostrare con la ragione naturale che egli è causa parziale necessaria, o insufficiente, del tutto, si potrebbe con uguale facilità dimostrare, con la ragione naturale, che è causa sufficiente di tutto, e allora le altre cause efficienti sarebbero poste inutilmente.
In secondo luogo affermo che non può dimostrarsi con la ragione naturale che Dio è causa efficiente di alcun effetto, perché non può dimostrarsi in modo soddisfacente che esistono fenomeni effettibili che non siano quelli generabili e corruttibili le cui cause efficienti sono i corpi naturali inferiori e celesti; perché, non si può sufficientemente dimostrare che una qualunque sostanza separata o un qualunque corpo celeste è causato da una qualunque causa efficiente. Neppure si può dimostrativamente affermare che l’anima intellettiva (che è tutta in tutto, e tutta in ogni parte) sia causata da qualche efficiente, poiché non può dimostrarsi che tale anima si trova in noi. Da questo segue necessariamente che non si può dimostrare che Dio sia la causa MEDIATA di alcun effetto, perché se si potesse dimostrare che Dio è causa mediata di un effetto, si potrebbe dimostrare anche che è causa immediata di un altro nel genere della causa efficiente. Ma questa seconda tesi non si può dimostrare, perciò neppure la prima. Per cui si conclude che non può naturalmente dimostrarsi che Dio è causa efficiente totale o parziale di alcun effetto.
Taluni sostengono che è possibile perché – come detto nel libro XII della Metafisica (di Aristotele) – un solo mondo non può avere che un solo principe; ora, poiché si può dimostrare filosoficamente che c’è un mondo solo, come attesta Aristotele nel primo libro “Del cielo”, si può anche dimostrare filosoficamente che c’è un signore solo, ma tale Signore è Dio; dunque ecc.
Si può tuttavia opporre che un articolo di fede non è mai dimostrabile in modo evidente, e siccome la proposizione che vi è un solo Dio è un articolo di fede, quindi ecc. Accingendoci a risolvere tale questione, spiegherà innanzitutto che cosa si debba intendere con il termine “Dio”; risponderò, quindi, alla questione.
Quanto al primo punto dico che del termine “Dio” possiamo dare due diverse definizioni. La prima è questa: Dio qualcosa che supera ogni altra cosa diversa in eccellenza ed in perfezione. La seconda è questa: Dio è l’essere di cui non ne esiste uno migliore e più perfetto..
Quanto al secondo punto dico che, se prendiamo il termine “Dio” nella prima definizione, non possiamo dimostrare in via apodittica che esiste un solo Dio. La ragione è che non si può sapere in maniera evidente se Dio, inteso in tal modo, esista, e quindi non possiamo neppure sapere se Dio, inteso in tal senso, sia soltanto uno. La conseguenza è chiara. La premessa si dimostra così: la proposizione “Dio esiste” non è immediatamente evidente, poiché molti dubitano di essa; non si può neppure dedurre da premesse immediatamente evidenti, poiché ogni argomentazione implica qualcosa di dubbio o di accettare per fede; e non è neppur evidente per l’esperienza, come è chiaro.
Dico inoltre che se si potesse dimostrare in modo evidente l’esistenza di Dio – intendendo “Dio” nel senso indicato dalla prima definizione -, in tal caso si potrebbe anche dimostrare la sua unicità. Infatti, se esistessero due Dei A e B, A sarebbe, in base a quella definizione, un essere più perfetto di qualunque altro, e quindi anche più perfetto di B, e B meno perfetto di A. Nello stesso modo, tuttavia, anche B sarebbe, per definizione, più perfetto di A, e A di B; cosa che è evidentemente contraddittoria. Sicché, ove fosse possibile dimostrare in modo apodittico che Dio esiste nel senso della prima definizione, sarebbe pure possibile dimostrarne l’unicità.
In terzo luogo dico che non è dimostrabile l’unicità di Dio, se intendiamo Dio nel senso della seconda definizione. Però anche questa proposizione negativa – “non si può dimostrare con evidenza che esiste un solo Dio” – non può essere dimostrata a sua volta in modo apodittico; giacché è possibile dimostrare che l’unicità di Dio è indimostrabile solo confutando tutti gli argomenti contrari. Così come non è possibile dimostrare in modo apodittico che le stelle sono di numero pari, o che le persone divine sono tre. Né, tuttavia, si possono dimostrare in modo evidente le proposizioni negative: e cioè che non è possibile dimostrare che le stelle sono pari, e che in Dio vi sono tre Persone.
Dobbiamo però sapere che è possibile dimostrare l’esistenza di Dio se intendiamo “Dio” nel significato della seconda definizione. Altrimenti, infatti, si verificherebbe un processo all’infinito se tra tutti gli esseri ve ne fosse uno del quale non potesse darsene un altro anteriore o più perfetto. Da ciò, per altro, non consegue affatto che di tali esseri ne esista uno solo; noi lo teniamo solamente per fede.
Oggi la teologia non è più il luogo delle risposte, ma delle domande senza risposta: del silenzio di Dio. Ai nuovi teologi piace ascoltare il suono della propria voce mentre formulano domande alle quali nessuno può rispondere: neanche Dio, visto che nessuno può averne conoscenza.
Questa citazione, crediamo, era necessaria affinché il lettore possa farsi un’idea del modo di ragionare del Nostro. Senza entrare troppo nel merito ci vorrebbe uno studio apposito – ci limitiamo a notare con quanto disinvoltura egli riduce le cose a nomi, a definizioni, sfuggendo continuamente al dovere di coerenza di trarre delle precise conclusioni da determinate premesse. La teologia, per lui, è ormai solo un guscio vuoto; un guscio dal quale ogni lumaca può andarsene a spasso per il mondo, nella direzione che più le pare e piace, lasciandosi dietro la sua lunga scia bavosa. Chi è Dio? Questo teologo, questo frate francescano, questo uomo di Dio, non lo sa più; riduce la domanda a una questione nominale, puramente accademica, e dà la risposta che darebbe un professore parlando di cose neutre e astratte: di Dio, dice, si possono dare due definizioni. Come, due definizioni? Ma chi è Dio, per lui? Chi è Dio, per la fede cattolica? Chi è Dio, per la ragione speculativa? Non si sa. Poi egli passa a esaminare le due definizioni, e arriva alla conclusione che nessuna delle due può essere dimostrata in maniera pienamente soddisfacente a lume di ragione. Quindi, conclude impassibile, non resta che appellarsi alla fede, il quale osa dire, davanti alla folla dei fedeli, che la morte di Gesù è una certezza della storia, mentre la sua resurrezione è un atto di fede. Complimenti vivissimi: questi falsi teologi e questi falsi preti sanno solo confondere le acque a un punto tale che il credente, ascoltandoli, non saprebbe più in cosa credere, e gli verrebbe il dubbio d’esser stato preso in giro, lui e i suoi avi, per un paio di migliaia d’anni. Quanto alla teologia, si direbbe che ormai serva solo a sollevare dubbi e a suscitare incredulità. Si noti come Guglielmo di Ockham adoperi la sua notevole dialettica scolastica solo per demolire la verità, mai per affermarla. La sua è un’intelligenza negativa: ama distruggere, non ama costruire. La fede è quella cosa che si crede; ma la ragione, eh, via, la ragione non conduce nella stessa direzione. Con la ragione non si possono dimostrare le cose della fede, neppure l’esistenza e l’unicità di Dio. E si noti con quanta disinvoltura egli fa appello, ma solo quando ciò rientra nella sua linea di pensiero, al senso comune: siccome, dice, non vi è consenso generale sull’esistenza di Dio, poiché molti la negano (nel XIV secolo!), allora bisogna rassegnarsi a considerare l’esistenza di Dio come una cosa tutta da vedere e tutta da chiarire. Come se, per un filosofo, il consenso della gente avesse il benché minimo valore di prova! Ma tutto questo è logico: una volta stabilito, come lui fa, che la realtà è ciò che appare a noi come evidente, è naturale dedurre che l’esistenza di Dio non rientra in tale categoria di enti, o, almeno, non vi rientra per la totalità degli esseri umani.
Dubbi ancora dubbi e sempre dubbi. La teologia inizia a morire con Guglielmo di Ockham: dal suo psicologismo passando per Karl Rahner, siamo arrivati al sociologismo
Guglielmo di Ockham, dunque, riduce il discorso teologico a psicologismo e a nominalismo: al punto che era conosciuto, al suo tempo, come Princeps Nominalium, il principe dei nomi. È comodo, per un teologo, spostare la riflessione sul piano dei nomi, cioè delle parole e dei concetti; ci si può lavare le mani, come Ponzio Pilato, quanto agli enti, cioè quanto al reale. Inoltre, in tutto i casi, egli può sempre difendersi dietro il suo stesso nominalismo: Ma io stavo parlando solo del significato delle parole, non delle cose in se stesse!, dirà, con aria offesa, se qualcuno gli domandasse conto delle conseguenze devastanti della sua dottrina. Povera teologia, su quale strada rovinosa si è messa, a partire da Guglielmo di Ockham. Come stupirsi che sia arrivata alle presenti sconcezze e assurdità? L’aborto è un problema sociologico, e bisogna affrontarlo dal punto di vista della sociologia. Così, dallo psicologismo di Guglielmo di Ockham, passando per Karl Rahner, Dubbi, ancora dubbi e sempre dubbi: la teologia non è più il luogo delle risposte, ma delle domande senza risposta: del silenzio di Dio. Ai nuovi teologi piace ascoltare il suono della propria voce mentre formulano domande alle quali nessuno può rispondere: neanche Dio, visto che nessuno può averne conoscenza.