LEZIONE VIDEO DI Giacomo Campanile
Orfeo
Il cantore che ammaliava l’uomo e la natura
Nel panorama del mito e della religiosità greca, Orfeo occupa un posto particolare: figlio della musa Calliope, riceve in dono da Apollo una magica lira con cui è capace di incantare gli elementi della natura, oltre che l’uomo. Il tentativo di riportare dall’oltretomba nel mondo dei vivi la moglie Euridice lo condurrà a una tragica fine. Al suo nome è collegato l’orfismo, un insieme di norme di vita e concezioni religiose che rappresentava, per i Greci, una scelta alternativa ai culti ufficiali
Il mito
La zona di origine dei racconti legati a Orfeo è probabilmente la Tracia, una regione a nord della Grecia considerata a metà tra mondo barbaro e mondo civile. Tracio è Eagro («selvaggio»), il re che si unisce alla musa Calliope generando Orfeo. Apollo gli fa dono di uno strumento musicale a sette corde, che Orfeo modifica aggiungendovene altre due: è una straordinaria lira al cui suono gli animali feroci si placano, i sassi si muovono, gli alberi ondeggiano; anche l’uomo è affascinato dall’armonia di Orfeo, che placa gli affanni e rigenera l’animo.
La sua è una musica apollinea, non violenta e sfrenata come quella di Dioniso (il romano Bacco), una musica che insegna il rispetto dell’ordine naturale e della purezza. Orfeo, come altri leggendari cantori quali Lino, Tamiri o Museo, è collocato dal mito greco in un tempo antichissimo, prima di Omero, e la sua poesia è sempre denotata da un alone di mistero; appartiene alla generazione degli eroi che partecipano all’impresa di Giasone e della nave Argo: è proprio lui, anzi, che al suono della lira muove le travi che da sole vanno a comporre la chiglia della nave; in seguito si imbarca con gli Argonauti e li allieta nelle lunghe notti di navigazione con il suo canto rasserenante, che racconta la nascita del mondo e della natura.
L’amore e la morte
Orfeo si innamora della ninfa Euridice e la chiede in sposa, ma il giorno delle nozze il pastore Aristeo, apicoltore, impazzisce e vuole rapirla.
Euridice si lancia in una fuga disperata ma calpesta un serpente che la morde, uccidendola. Orfeo è disperato ma riesce con la sua musica ad affascinare Ade (il romano Plutone) e Persefone (la romana Proserpina) che gli concedono di riportarla in vita: né lui né Euridice, però, dovranno voltarsi a guardare indietro durante la salita dagli inferi, pena il ritorno nel regno dei morti, questa volta per sempre.
Orfeo scende nell’oltretomba e assieme a Euridice comincia la fuga verso la vita. Ma la curiosità tradisce Euridice, che si volta ed è costretta a restare per sempre negli inferi. Orfeo intona un lamento drammatico per la sua sposa, giurando che non amerà mai più altre donne, commuovendo tutta la natura. Ma un gruppo di baccanti, seguaci di Dioniso, ode il canto di Orfeo: in preda all’estasi dionisiaca, decise a punire Orfeo per il suo giuramento, lo uccidono e fanno a pezzi il suo corpo. Una pestilenza disastrosa si abbatte però sul paese: Apollo, irato per la perdita del fedele cantore, ordina come espiazione che venga costruito un tempio a Orfeo. La sua testa, che le onde del mare hanno portato fino all’isola di Lesbo, è ritrovata da un pescatore, e continuerà a dare vaticini per sempre, mentre la lira intonerà ancora un’armonia melodiosa.
L’orfismo
Collegato alla mitica figura di Orfeo è, in Grecia, l’orfismo, una delle esperienze più affascinanti e misteriose della religiosità antica. Più che un vero e proprio culto ufficiale, l’orfismo era un complesso di concezioni sulla natura, l’origine del mondo e il destino dell’uomo, nonché un modo di vita basato su comportamenti ritenuti eticamente giusti e puri (orphikòs bìos «vita orfica»).
Si trattava di una fede iniziatica e misteriosa, che cioè non si avvaleva di culti pubblici; solo pochi, infatti, venivano ammessi alla conoscenza e alla pratica dei riti religiosi. Gli orfici divenivano tali dopo un cammino di preparazione e di prove, e compivano i loro riti in disparte dalla comunità cittadina: per questo spesso erano oggetto di discriminazioni e disprezzo.
L’iniziato all’orfismo cercava con la divinità – in particolare con Dioniso – un rapporto individuale attraverso la lettura dei numerosi testi orfici che spiegavano la nascita del mondo e i precetti del culto. Doveva inoltre vivere secondo i precetti della natura: non poteva cibarsi di carne, perché credeva nella reincarnazione delle anime; non poteva, ugualmente, cremare il defunto. Doveva assicurarsi la salvezza dell’anima – un concetto che proprio con l’orfismo comincia a diffondersi fra i Greci d’età classica – attraverso rinunce e privazioni, rigore morale e purezza.
Orfeo (gr. ᾿Ορϕεύς, lat. Orpheus; etimologia discussa, forse da una radice comune al gr. ὀρϕανός e lat. orbus, con un significato di “solitudine”, “privazione”, che ricorre in nomi e termini aventi riferimento agli inferi)
MITOLOGIA
Personaggio della mitologia greca, figlio di Eagro (Οἴαγρος, il “solitario agreste”), e di una delle Muse (Polinnia o Calliope), cantore che piega al suono della sua lira gli animali e tutta la natura. I due miti salienti legati alla sua figura sono quello della katàbasis (discesa agli inferi) che egli compie per riportare in vita la sposa morta, Euridice, e quello della morte avvenuta per sbranamento da parte delle mènadi. Entrambi i miti hanno varianti: secondo una versione Orfeo sarebbe riuscito a riportare Euridice dagli inferi, mentre secondo quella diventata classica, pur avendo persuaso con il suo canto le divinità infere, sarebbe fallito nell’impresa, per aver violato la condizione di non voltarsi indietro lungo il percorso verso la terra in cui doveva precedere la donna; quanto alla morte, essa viene attribuita anche al fulmine di Zeus.
Mentre questi due miti non sono esclusivamente suoi (sia discese negli inferi sia morti per sbranamento o per fulmine si riscontrano in miti di altri eroi), Orfeo appare coinvolto, probabilmente in modo secondario, anche in altri miti (per es., egli partecipa all’impresa argonautica). Originaria sembra invece la localizzazione del personaggio nella Tracia, centro di diffusione di movimenti religiosi a carattere mistico-orgiastico confluiti nel culto dionisiaco e, appunto, nel cosiddetto orfismo. Infatti, l’importanza della figura mitica di Orfeo non si fonda tanto sui racconti variamente modellati nella tradizione poetica, quanto sul fatto che egli era il prototipo mitico di coloro che aderivano al movimento religioso che oggi chiamiamo orfismo; egli ne sarebbe stato il fondatore e autore di vari scritti “teologici” che andavano sotto il suo nome. Sullo sfondo di quel poco che si conosce intorno a questo movimento, acquistano però un significato particolare anche i miti menzionati: la preoccupazione orfica per l’immortalità spiega, almeno in parte, la katàbasis di Orfeo, mentre lo sbranamento del fondatore trova un singolare riscontro nella versione orfica della morte di Dioniso Zagreo, fanciullo divino sbranato dai Titani (ma in origine, più probabilmente, dalle mènadi). Solo una più precisa conoscenza dell’orfismo, delle sue origini, della sua consistenza come movimento e del suo vero indirizzo, permetterebbe di valutare gli elementi del mito, distinguendo quelli più antichi da quelli più recenti, quelli d’origine sacra da quelli poetici. Così, per es., i rapporti di Orfeo con Apollo che figura anche come suo padre e che come dio della lira gli è vicino, appaiono (per es., nella versione eschilea del mito) in contrasto con il culto di Dioniso cui Orfeo si sarebbe opposto; mentre d’altra parte sia il mito di Orfeo sia l’orfismo presentano elementi indubbiamente dionisiaci. Non bisogna però dimenticare che Apollo e Dioniso nella realtà religiosa greca non erano in contrasto, e a Delfi erano venerati insieme; secondo una leggenda antica la testa di Orfeo ucciso, insieme con la lira, avrebbe raggiunto, trasportata dalle onde del mare, l’isola di Lesbo, dove la testa dava oracoli in un tempio di Dioniso, mentre la lira era conservata nel tempio di Apollo. Nel 4° sec. a. C., con le nuove tendenze razionalistiche, si cominciò a dissentire sulla personalità di Orfeo e a negare (con Aristotele) la sua esistenza.
IL MITO NELLA LETTERATURA, NELL’ARTE E NELLA MUSICA
La letteratura ellenistica e l’arte figurativa trattarono il mito di Orfeo sempre più liberamente, e i Romani lo derivarono dagli alessandrini: si ricordino la descrizione nelle Metamorfosi di Ovidio e l’episodio finale del 4° libro delle Georgiche di Virgilio.
L’arte della tarda antichità ha prediletto il motivo di Orfeo che ammansisce le fiere (noto fin dal 1° sec., ma diffuso specialmente fra il 3° e il 6°), che fu adottato anche dall’arte cristiana, con varie implicazioni allegoriche (fra le quali quella del buon pastore). Nell’arte moderna il mito di Orfeo fu numerose volte soggetto di quadri e sculture. Tra i primi vanno ricordati alcuni chiaroscuri di Mantegna nella sala degli Sposi nel castello ducale di Mantova (con la punizione di Orfeo, tema che ricorre anche in taluni cassoni nuziali fiorentini), l’Orfeo di G. Bellini (collez. Widener, Filadelfia), i disegni di Leonardo per le scene della favola di Orfeo che doveva rappresentarsi a Mantova, diversi piatti di Casteldurante, di Urbino e di altri centri, la statua di P. Francavilla, e poi dipinti di D. Dosso, del Tintoretto, Rubens, Bruegel il giovane, N. Poussin, Corot, Delacroix, Spadini, i bozzetti di scena e il film di J. Cocteau, il film di M. Camus ecc.
Via via la rievocazione della storia di Orfeo ha assunto vari significati, da quello etico-pratico delle prime raffigurazioni del Rinascimento, all’espressione del dominio dell’arte sugli istinti animali, e, in direzione opposta, all’enunciazione della nullità della poesia di fronte all’avversione del destino, o della estraneità della poesia dal mondo.
Il mito di Orfeo, nelle letterature moderne, fu celebrato da A. Poliziano nella Favola di Orfeo (1480) – dalla quale è tratto il libretto (di A. Striggio) della favola in musica Orfeo (1607), di C. Monteverdi -, da Lope de Vega nella commedia El marido más firme (1625), da Calderón de la Barca nell’auto El divino Orfeo (1663). Nel sec. 20° il mito di Orfeo è stato più volte rielaborato da J. Cocteau, nel teatro (con la tragedia Orphée, 1927) come nel cinema (Orphée, 1950; Le testament d’Orphée, 1960).
Tra le opere musicali, oltre a quella di Monteverdi, vanno ricordate: La morte di Orfeo (1619) di S. Landi; Orfeo (1647) di L. Rossi; Orfeo e Euridice (1762, su versi di R. Calzabigi) di Chr. W. Gluck; L’anima del filosofo (Orfeo e Euridice) (1791 circa, ma rappresentato solo nel 1951 a Firenze) di F. J. Haydn; il poema sinfonico Orpheus (1854) di F. Liszt; l’opera comica Orphée aux Enfers (1858) di J. Offenbach; il mimodramma Orphée (1913; rappresentato 1926) di J. Roger-Ducasse; Orpheus und Eurydike (1926) di E. Křenek; il dramma musicale Orfeu da Conceição (1956) di V. de Moraes, da cui fu tratto il film Orfeu negro (1959) di M. Camus.
Òrfeo
(gr. Orphéus, lat. Orpheus)
Caratteristiche e genealogia
Mitico cantore trace, che i greci ponevano fra i capostipiti della loro tradizione poetica e musicale, accanto a Lino – che secondo alcune testimonianze sarebbe stato il maestro di Orfeo, secondo altre suo fratello – e comunque prima di Omero e di Esiodo, che talvolta erano addirittura inseriti fra i suoi discendenti. Unanimi sono le fonti antiche nell’attribuirgli per madre una delle nove Muse, per lo più Callìope. Il padre è talvolta indicato nel re di Tracia Eagro, talvolta invece nel dio Apollo (cf. Apollodoro, Biblioteca I 3, 2). I tratti di eccezionalità artistica a lui attribuiti si riassumono nel diffuso motivo leggendario che vuole Orfeo capace di incantare con la sua musica non solo gli uomini, ma anche le fiere, o addirittura gli elementi del regno vegetale (Euripide, Baccanti, 562-564) e della natura inanimata (Apollonio Rodio, Argonautiche I 25-27).
Vicende mitiche
Due sono i racconti cui Orfeo è tradizionalmente legato: il viaggio degli Argonauti alla volta della Colchide, per recuperare il vello d’oro, e la catabasi infernale (discesa agli inferi) cui lo costrinse la morte della moglie Euridìce. Alla spedizione guidata da Giasone Orfeo diede un contributo fondamentale, vincendo nel canto le Sirene e impedendo così che l’equipaggio cedesse alle lusinghe del loro canto (Apollonio Rodio, Argonautiche IV 891-911). La discesa nell’Ade è invece un racconto al cui tragico finale è rimasta legata, attraverso i secoli, la fama di Orfeo. Il cantore aveva preso in moglie Euridice, figlia di Nèreo e di Dòride. Un giorno la giovane donna fu morsa da un serpente – mentre tentava di fuggire Aristèo intenzionato a usarle violenza, secondo la versione del mito raccolta da Virgilio nel IV libro delle Georgiche – e così trovò la morte. Amandola intensamente ed essendo incapace di trovare consolazione, Orfeo decise di scendere agli inferi per convincere le divinità sotterranee a restituirgli, contro ogni legge di natura, la sposa perduta. Al suo ingresso nell’Ade, le più tenebrose e feroci creature che secondo il mito popolavano il mondo sotterraneo furono incantate e commosse dal suo canto: non seppero resistergli né le Erinni, né il cane Cèrbero, né Persèfone né Ade stesso. Così a Euridice fu concesso il ritorno alla luce, al solo patto che durante la risalita Orfeo, che avrebbe dovuto precedere la moglie, non si voltasse mai indietro per gettarle uno sguardo. Incapace di resistere, o accecato per volere del destino, Orfeo si voltò quando ormai il viaggio di ritorno stava per essere compiuto. Allora Euridice svanì nel nulla e a Orfeo fu vietato di rivedere ancora la propria sposa. Per lunghi mesi il cantore trascorse il suo tempo a piangere e a cantare dolcemente la moglie perduta: alla sua musica si ammansivano le bestie feroci, si sommuovevano le querce. Finché, avendo irritato le Baccanti di Tracia con l’ostinazione del suo lutto e con il rifiuto di cedere nuovamente all’amore e ai piaceri della vita, Orfeo fu ucciso e smembrato: i brani del suo corpo furono sparsi dalle Baccanti per i campi e la sua testa fu gettata nel fiume Ebro. Secondo tradizioni posteriori, il capo di Orfeo sarebbe infine approdato sulle coste di Lesbo, garantendo all’isola – patria fra gli altri di Saffo e di Alceo – una secolare fortuna nell’àmbito del canto e della musica.
Orfeo e il cosiddetto “orfismo”
Il nome di Orfeo fu ben presto legato a un movimento di carattere filosofico-religioso assai discusso tanto per la sua origine, quanto per le sue dottrine e per la sua stessa natura di tradizione unitaria e omogenea: è il cosiddetto “orfismo”, che già Erodoto (Storie II 81), e con lui molti studiosi moderni, mette in relazione da una parte con la religione dionisiaca (lo smembramento di Orfeo ricorda da vicino la storia mitica dello stesso Dioniso), dall’altra con la setta dei pitagorici e con il cosiddetto pitagorismo, complesso di dottrine filosofiche e misteriche che si richiamano al filosofo samio Pitagora (attivo a Crotone, in Magna Grecia, a partire dal 530 a.C. ca.).
Sotto il nome di Orfeo sono giunti sino a noi testi di varia epoca e di diverso contenuto: ottantasette Inni (preghiere agli dèi) foggiati sul modello degli Inni omerici, ma ispirati a una religiosità ben diversa dalla religiosità classica tradizionale; un poema epico dal titolo Argonautiche orfiche; un poema dedicato alle virtù delle pietre e intitolato Lithiká («Versi sulle pietre»); infine, un corpus di oltre 360 frammenti (fra brani in versi, brani in prosa, testimonianze dottrinarie) provenienti da diverse fonti. Mentre è universalmente riconosciuto che gli Inni, le Argonautiche orfiche e i Lithiká devono essere attribuiti ad epoca relativamente tarda (nessuno di essi è certamente anteriore al II secolo d.C.), tra i frammenti orfici si celano senza dubbio testi o dottrine risalenti almeno al VI-V secolo a.C. Essi veicolano un sapere assai composito, che va da teorie teogoniche e cosmogoniche eterodosse (nella tradizione orfica ricoprono un ruolo fondamentale divinità come Chrónos, il «Tempo», Phánes, dio ermafrodita, Eros, l’Amore, e infine Dioniso [Zagréus], oggetto di sacrificio rituale – smembramento e cottura – da parte dei Titani, con successiva ‘resurrezione’) a un nutrito insieme di rivelazioni relative all’oltretomba e ai destini delle anime dopo la morte, sino all’elaborazione di pratiche tabuistiche e dietetiche miranti alla purificazione dell’anima dai suoi legami con il corpo e con la vita terrena. In questo nucleo di dottrine escatologiche (la credenza nella vita ultraterrena e nell’immortalità dell’anima) e di prescrizioni catartiche (fra cui spicca l’astensione dalla carne e dal sacrificio animale – uno dei capisaldi della religione antica – nonché una rigida pratica di castità o di temperanza sessuale) gli studiosi sono concordi nell’individuare uno dei tratti originari dell’orfismo.
È soprattutto dal V secolo a.C. che il fenomeno dovette assumere una marcata visibilità sociale, quando il messaggio dell’orfismo – se mai si trattò di un messaggio unitario – venne affidato soprattutto alla predicazione di apostoli itineranti, non di rado accusati di ciarlataneria (durissimo è il giudizio che ne dà Platone nella Repubblica, 364b-365a, descrivendoli come truffatori particolarmente assidui nelle case degli ateniesi più facoltosi). Testimonianze relative a tali predicazioni si trovano quindi in Erodoto, in Euripide (è tratteggiato con le caratteristiche del tipico orfico l’Ippolito dell’omonima tragedia: cf. vv. 952-954) e nel comico Aristofane. In ogni caso, anche se alcuni aspetti dell’orfismo possono essere considerati sicuri e relativamente stabili (in particolare la fede nell’immortalità dell’anima e nella sua eventuale reincarnazione, con tutte le pratiche rituali e iniziatiche legate a tali credenze), gli studiosi sono oggi molto prudenti nel considerare il movimento come una ‘setta’ organizzata e compiutamente stratificata: si ha piuttosto la sensazione di trovarsi di fronte a un fenomeno complesso, frastagliato, estremamente differenziato sia in senso sociologico, sia in senso dottrinario.
Quanto ai numerosi testi attribuiti a Orfeo, è certo che tale uso sia da mettere in relazione con la diffusa pratica della pseudoepigrafia (falsa attribuzione di testi a personaggi illustri) che fra VI e V secolo a.C. interessò pressoché tutti i cantori e i sapienti della tradizione più antica, ivi comprese figure ritenute spesso ‘storiche’ come Omero ed Esiodo. A tempi recenti risale la scoperta delle cosiddette ‘laminette orfiche’: un corpus di ca. 20 lamine d’oro recanti iscrizioni, ritrovate in Italia meridionale, a Creta e in Tessaglia, databili al IV-III secolo a.C. (la più antica e celebre fra esse viene da Hippònion [Vibo Valentia] e si data al 400 a.C. ca.) e contenenti per lo più istruzioni relative al viaggio oltretombale delle anime iniziate alla dottrina di Orfeo: notevole è il ruolo in esse giocato dalla dea Mnemosyne («Memoria»), l’unica in grado di garantire gli iniziati contro l’oblio che li condannerebbe a un’eterna e umiliante metempsicosi, e dal mito del dio Dioniso-Zagréus, dalla cui uccisione per mano dei Titani deriverebbe – recando con sé le tracce di quella colpa originaria – la stirpe dei mortali. Gli studi più recenti tendono a mettere in relazione tali dottrine con le sette pitagoriche attive nell’Italia meridionale e manifestamente contigue a forme rituali e sapienziali caratteristiche del cosiddetto ‘orfismo’.
La leggenda principale narra della discesa agli inferi di Orfeo da vivo. Dopo che la sua amata Euridice morì morsicata da un serpente, si presentò nell Ade per riprenderla incantando con il suo canto il cane Cerbero e il re e la regina dei morti (Plutone e Persefone). Egli ottenne la restituzione alla condizione di camminare avanti senza voltarsi finché non avessero entrambi raggiunta la loro dimora terrena. Tuttavia Orfeo proprio quando intravide il primo barlume di luce si voltò e, vide Euridice che immediatamente svanì come ombra. Orfeo, desolato, tornò nelle regioni della Tracia qui andò cantando un pianto tale da commuovere gli animali. Zeus, spinto dalla compassione, lo privò della vita mediante un suo fulmine. Marco Sartor – Classe IVC – Anno Scolastico